Un altro aspetto della sconfitta
Una
conseguenza della disfatta del 24 ottobre, in grado evidenziarne la
gravità, è certamente la rotta non solo dei militari ma anche dei
civili dietro la linea del fiume Tagliamento prima e del Piave poi.
Si trattò di un esodo di massa avvenuto in circa 2 settimane di
quasi 250.000 persone che abbandonarono le provincie del Friuli e
parte del Veneto. Nelle settimane successive gli sfollati diventarono
complessivamente oltre 600.000 e furono il simbolo di una guerra
molto più vicina, e non più di confine, nella quale si aggiunse una
dimensione civile difficilmente prevedibile. La scelta della ritirata
per i soldati, per quanto sconvolgente, imprevista e disordinata, fu
obbligata e non opinabile. I civili, invece, si ritrovarono a
prendere decisioni, spesso conflittuali, in merito al proprio futuro
senza avere informazioni certe da parte del Comando supremo. Infatti,
nelle regioni e nei territori considerati zone di guerra, lo Stato
era rappresentato da Cadorna, non da Orlando, e quindi l’esodo dei
civili era possibile solo se conciliabile con le priorità
dell’esercito in ritirata. Con la ritirata dell’esercito e
l’esodo dei civili assistiamo ad una sorta di fuga parallela.
Quella della popolazione non è certo una fuga nell’accezione
negativa del termine ma una partenza precipitosa, rispetto ad un
pericolo, verso un luogo, spesso ignoto, nella speranza di trovare
risorse e mezzi per la sopravvivenza. La memorialistica riprodusse
con enfasi immagini di case e negozi abbandonati, fabbriche
incendiate e le misere condizioni nelle quali furono costretti a
partire i civili mescolati alle truppe. I soldati, che in parte
sentirono la ritirata come una sorta di vacanza dalla terribile vita
in trincea, vissero l’incontro con la popolazione in modo
scioccante. L’estraneità era reciproca perché il mondo dei civili
e quello dei militari era completamente separato dall’inizio del
conflitto e, con stupore, i combattenti assistettero all’abbandono
di masse di persone da città come Cividale, Pordenone, Udine ecc...
Profughi, che espressero sentimenti molto diversi in merito alla
disfatta, perché talvolta incolparono la codardia di alcuni soldati,
come recitava la poesia di Marianna Cattaneo Serrao:” I vili hanno
tradito con l’inganno”, mentre in altri casi, come per il
deputato di Tolmezzo Michele Gortani, individuarono nel Comando
supremo il vero colpevole della disfatta:
Ora
lo fucileremo il suo Cadorna – mi urlò: - tocca a lui ora, il
traditore. Ovviamente, per quanto la popolazione indietreggiasse
insieme all’esercito sulle strade principali, le forze armate
avevano la priorità obbligando quindi spesso i civili a prendere
strade secondarie o ad avanzare faticosamente nei campi. Questa
situazione acuiva quindi anche il senso
di colpa dei combattenti che, oltre ad aver subito un’enorme
disfatta al fronte, impedivano ai civili di raggiungere velocemente
luoghi più sicuri. Cividale e Udine furono tra i primi centri in cui
si riversarono i primi sbandati che trasmisero, con le loro
testimonianze, paura e incertezza nella popolazione. Già tra il 25 e
il 26 ottobre da Cividale e da San Pietro al Natisone alcune delle
famiglie più facoltose decisero di allontanarsi, mentre la maggior
parte popolazione rimase incerta e in attesa di comunicazioni
ufficiali. In alcuni luoghi chiave come la stazione ferroviaria nel
capoluogo friulano, regnava il disordine e si temeva un'incursione
aerea del nemico. Il 27 ottobre, nonostante il sindaco, Domenico
Pecile, avesse pubblicato un manifesto volto a tranquillizzare la
popolazione, la stazione era nel caos e molte persone si diressero
verso Tagliamento a piedi mentre altre ancora attendevano nascoste a
casa. Ma quali erano i motivi per i quali si sceglieva se rimanere o
partire? Per alcuni l’elemento centrale fu rimanere per assistere
persone malate o anziane e per non abbandonare beni e proprietà. Per
altri, invece, soprattutto quelli con maggior disponibilità di
denaro, partire significava allontanarsi da una zona che sarebbe
stata a breve occupata dal nemico e nella quale violenze e privazioni
non sarebbero certo mancate, come avvenne all’inizio del conflitto
con l'invasione del Belgio. Inoltre, la scelta, per alcuni, della
partenza avvenne in modo spontaneo sapendo che avrebbero potuto
raggiungere amici o parenti in zone più lontane e sicure rispetto
alla nuova linea del fronte. La decisione comunque veniva spesso
presa in famiglia e l'idea di ritornare in futuro era comunque
centrale nella mente di coloro che si apprestavano a compiere questo
difficile viaggio. Ad alimentare ulteriormente i timori di soprusi,
erano le dicerie che nell'esercito invasore ci fosse un gran numero
di turchi, bulgari e slavi, nazionalità considerate barbare e
incivili. Nelle comunità più piccole e in quelle montane spesso i
parroci divennero gli interlocutori della popolazione e consigliarono
di rimanere proponendo eventualmente l'allontanamento di donne e
bambini. Per quanto riguarda invece i paesi vicini al Tagliamento,
come San Michele che distava solo pochi chilometri, la fuga era da
attribuire alla paura di rimanere tra due fuochi poiché si sapeva
che l'esercito italiano si sarebbe appostato sulla riva destra del
fiume. L'obiettivo principale per tutti quelli che partivano era il
raggiungimento dei ponti, sul Tagliamento prima e del Piave poi, nei
pressi dei quali una calca ormai ingovernabile transitava lentamente
da una riva all'altra. Oltre al disordine molte erano le grida
provenienti tra le colonne dei civili, lamenti di parenti che
cercavano i congiunti dispersi o persone che chiedevano aiuto. Le
condizioni meteorologiche avverse resero ancor più difficoltoso
l'esodo non solo per le difficoltà pratiche ma per suo il valore
simbolico, di catastrofe, come evidenziò l'ufficiale Mario Puccini:
Scenderanno,
ora, sul pianoro di Debordò gli austriaci. E la pioggia potrà,
alleata col vento, sradicare, sconvolgere, distruggere. Diranno i
nemici: Sbizzarrisciti, o vento, su codeste ossa marcite. Lontana,
ormai è l’Italia e non fa più paura!. Uno degli aspetti più
controversi relativi alla rotta fu certamente la fuga delle classi
dirigenti. Da una parte il funzionario pubblico si sentiva
depositario di un potere che andava messo in salvo come, ad esempio,
carte d’archivio e i registri dello stato civile, ma dall’altra,
la fuga di sindaci, assessori, consiglieri comunali ecc… indusse la
popolazione stessa a partire precipitosamente. Numerose conferme
delle defezioni della classe dirigente si ebbero tra coloro che
riuscirono a fuggire, per quanto ci furono molti casi dove l'autorità
si mise a disposizione della popolazione. Per esempio, il sindaco di
Tarcento, Agostino Candolini, scrisse nel suo diario che partì solo
dopo essersi adoperato al meglio per favorire lo sgombero dei civili,
nonostante la prematura partenza degli impiegati municipali
preoccupati maggiormente di salvare se stessi e le loro famiglie. Più
severa invece la versione di Gioacchino Volpe dove nell'opera
“Caporetto civile” evidenzia il disorientamento generale delle
classi dirigenti locali e la mancanza di ordini superiori:
Dalla
zona di guerra, le autorità politiche e amministrative, quasi tutte
in fuga. Non avevano istruzioni dal Comando Supremo, non dal Governo.
Quello, anzi, credete che fino all'ultimo, anche a rottura avvenuta,
di dover assicurare le popolazioni, presaghe e inquiete. Per cui,
nessun capo era lì presente a guidare, consigliare, confortare nei
giorni terribili. E fu grande risentimento contro di loro! Per tutto
il Veneto, dilagò un senso di panico. Il punto centrale fu che,
interrotta la catena di comando, la maggior parte delle
amministrazioni locali decisero autonomamente come agire in base al
contesto generale e alle scelte dei singoli individui. Accanto
all’esodo delle autorità civili spesso l’autorità religiosa fu
indotta a rimanere come nel caso di Udine dove i parroci seguirono le
prescrizioni del diritto canonico rimanendo nella parrocchia anche
con la presenza di pochi fedeli. Certo vi furono casi particolari
come l’arcivescovo di Udine, Anastasio Rossi, che abbandonò
frettolosamente la città o il caso del seminarista Antonio Cucchiaro
che si unì agli sfollati vestito in abiti borghesi. Monsignor Rossi
si giustificò poi dicendo che visto che, a suo dire, la maggioranza
della popolazione aveva scelto di spostarsi in zone più sicure, era
allora suo dovere seguirli, comportamento giudicato vile dalla Santa
Sede che valutò l’ipotesi di farlo rientrare a Udine. L’esodo
colse decisamente impreparata la macchina burocratica e il Ministero
dell’Interno, il quale stabilì il 27 ottobre che i profughi
fossero concentrati a Bologna e Milano per poi essere smistati. Anche
Napoli divenne un centro di smistamento per profughi diretti in
Italia meridionale ma risultò subito evidente che le dimensioni
dell’esodo mettevano il sistema in estrema difficoltà: Arrivo
profughi diventa valanga e minaccia sopraffarmi. Ne ho quattro mila
in stazione, laceri, sporchi affamati, indignati che rifiutansi
proseguire. Sforzomi far dare loro ristoro prima di ricoverarli in
teatri, chiese e sale concerto. In giornata dovranno arrivarne altri
tredici treni, con circa dieci mila. L’arrivo di tutti questi
profughi fu certamente complicato a causa della gestione
dell’emergenza alimentare, sanitaria e dell’ordine pubblico
tenendo presente che alcuni comuni più piccoli videro quasi
raddoppiata la popolazione. Cominciò poi un secondo esodo in tutti
quei comuni nei pressi della linea del fronte, sul Piave e alle
pendici del Grappa. Particolare fu il caso di Venezia dove
inizialmente l’esodo interessò le classi agiate e dove venne
pubblicato un bando che intimava i funzionari a rimanere in città.
Con la chiusura di diverse realtà industriali, una successiva
emigrazione all’inizio del 1918 divenne inevitabile per la paura
d’incursioni aeree e per le difficoltà economiche. Si ebbe
l’impressione che l’Austria mettesse in difficoltà appositamente
le autorità italiane sul piano dell’assistenza tramite
bombardamenti mirati il cui fine era aumentare il più possibile in
numero degli sfollati. Venne quindi incentivato l’arretramento
temporaneo della popolazione in quelle zone interessate dalle
incursioni aeree e vennero corrisposti sussidi per i meno abbienti
affinché potessero trovare rifugio in abitazioni rurali durante le
notti degli attacchi. Complesso e drammatico fu anche lo sfollamento
degli ospedali che impose ai pazienti viaggi faticosi che li
dispersero in diversi istituti anche lontano da casa.
Vi
erano anche persone, come Giovanni Ansaldo che scrisse un articolo in
merito su “l’Unità”, che vedevano in Caporetto la possibilità
di riavvicinare gli italiani del nord e sud Italia generando una
maggior solidarietà nazionale mossa da spirito patriottico. Questa
idea di sacrificio e coesione nazionale di fronte al comune nemico
ebbe molta fortuna sulla stampa italiana anche in giornali molto
diversi come l’“Avanti” e “Il Popolo d’Italia” per quanto
la censura intervenne eliminando notizie relative all’esodo, al
numero degli sfollati, requisizione di alberghi ecc…L’immagine
dei profughi venne esaltata trasformandoli nell’emblema della forza
e resistenza degli italiani, nuovi rappresentanti di civica
compostezza di fronte alla tragedia e vittime eroiche della guerra,
evidenziando la fuga come un atto volontario e coraggioso per
sottrarsi alla dominazione del nemico invasore. Quest’aspetto,
invece, trovòpoco spazio nei giornali destinati alle truppe che
invece insistevano a sottolineare le barbarie del nemico sui civili
rimasti nelle provincie invase. Il problema dei profughi non era del
tutto una novità perché si presentò anche nei giorni a ridosso
dell’entrata in guerra dell’Italia quando un flusso importante di
diverse decine di migliaia di cittadini rientrò velocemente nel
paese da Germania, Francia e Austria-Ungheria. Lo stesso termine
“profugo” non era ben chiaro e il concetto venne precisato in una
circolare del Ministero dell’Interno del 12 luglio 1916 che
distingueva gli sfollati in quattro categorie. La prima riguardava
gli abitanti in villaggi austriaci che vennero evacuati per
salvaguardare l’incolumità della popolazione; la seconda
riguardava quei cittadini abitanti in territorio austriaco
allontanati per sospetto d’infedeltà o di spionaggio; la terza
riguardava i civili italiani evacuati per ordine del comando supremo;
la quarta, infine, riguardava cittadini italiani, residenti in
Italia, che vennero allontanati a causa del loro comportamento
sovversivo o ostile alla guerra. Dopo la disfatta di Caporetto,
Orlando diede molto rilievo al problema degli sfollati e date le
dimensioni dell’esodo era necessario che l’emergenza venisse
affrontata con mezzi e risorse adeguate. Il presidente del Consiglio
era però contrario all’istituzione di un organismo di assistenza
fuori dal controllo del Ministero dell’Interno ma dovette adeguarsi
alle insistenze dei deputati delle province invase. Venne così
istituito un Alto commissariato presso la Presidenza del Consiglio il
cui compito era occuparsi degli interessi collettivi delle terre
occupate dal nemico e provvedere al necessario per l’assistenza
morale e materiale. Venne emanata dall'alto Commissariato il 10
gennaio 1918 una circolare dove si specificava che i profughi erano
coloro che provenivano dalla zona invasa e coloro che erano stati
allontanati o erano fuggiti da zone vicine al teatro delle operazioni
dove quindi era difficile il normale svolgimento della vita civile.
Vennero considerati profughi di guerra, inoltre, quelli che prima
della disfatta di Caporetto furono costretti a lasciare le loro case
a causa dell’offensiva austriaca del maggio-giugno 1916 e anche
coloro che erano stati espulsi dagli Imperi centrali dal 1915.
L’obbiettivo era sia fare in modo che tutti i profughi ricevessero
lo stesso trattamento sia regolare la materia dei sussidi che
prevedeva anche un’indennità per gli affitti. Si regolavano poi la
distribuzione degli indumenti, l’assistenza medica, scolastica e i
trasferimenti. Per organizzare, invece, l’assistenza a livello
locale venne istituito in ogni comune un apposito Patronato,
amministrato da un Comitato, cui potevano far parte personale
sanitario, religioso e scolastico oltre che amministratori locali. Il
Patronato si occupava di dare assistenza sanitaria, materiale e
morale ai profughi utilizzando risorse proprie, o pervenute dal
Governo, e poi ripartite dall’Alto commissariato in base alle
esigenze di ciascun comune. Aveva poi molti altri compiti come
regolare il pagamento dei sussidi, gestire e agevolare l’acquisto
di generi di consumo, promuovere l’ammissione dei ragazzi nelle
scuole, facilitare l’assunzione di profughi in grado di lavorare
nelle aziende, salvaguardare il ricovero degli anziani e favorire la
solidarietà con la popolazione locale. Non sempre i Patronati
riuscirono a migliorare le condizioni dei profughi specie nei comuni
più piccoli e in località inospitali, dove le possibilità per gli
sfollati di trovare lavoro erano scarse. Anche il controllo esterno
dell’operato nei Patronati fu piuttosto difficile perché spesso si
delegarono tutti i poteri a pochissimi membri, in genere quelli
considerati esperti in dinamiche assistenziali che però talvolta
riproducevano quelle clientelari, e quindi fu difficile assicurare
criteri d’imparzialità soprattutto nell’erogazione dei sussidi.
Inizialmente venne concesso un sussidio giornaliero ai profughi delle
terre invase che poteva essere aumentato in base alle circostanze. Ma
in breve tempo il peso finanziario, in attesa di fondi dallo Stato,
fu insostenibile per i comuni e divenne evidente l’impossibilità
di stabilire una norma generale in tema di sussidi. Infatti, oltre al
fatto che molte famiglie erano divise in località diverse bisognava
considerare anche la notevole differenza dei prezzi dei generi di
consumo da un luogo all’altro e la differente composizione sociale
dei profughi. Fu subito evidente che la misura del sussidio era
insufficiente per far fronte a tutte le necessità e alcuni deputati,
come Amedeo Sandrini, protestarono attribuendo ai funzionari la
responsabilità dell’inefficace gestione delle risorse A chi il
sussidio viene consegnato in denaro, a chi in alimenti nei rifugi; a
chi si dà sussidio e abitazione, a chi o l’uno o l’altra, a chi
né l’uno né l’altra. Le intenzioni del Governo, abbondanti
quanto a larghezza del criterio di sussidio, non trovarono
dappertutto funzionari che le applicassero con spirito di generosità;
taluni, temendo agglomerati ecbìcessivi, considerarono la
parsimonia, per non dire l’avarizia, nella distribuzione dei
sussidi quale un mezzo di sfollamento dei profughi dalle loro sedi.
Il
sussidio giornaliero in denaro stabilito dalla circolare del 10
gennaio 1918 stabiliva, per esempio, che l’importo era di 2 lire
per le persone sole, di 3,60 lire per le famiglie di due persone, di
4,50 lire per le famiglie di tre persone e via dicendo ma in nessun
caso l’ammontare complessivo poteva superare le 360 lire mensili.
Veniva poi tenuto conto dell’eventuale reddito lavorativo che, se
avesse portato il totale oltre le 600 lire mensili, il Patronato
sarebbe intervenuto apportando riduzioni con una discrezionalità che
fu spesso la causa di diverse disparità di trattamento. Poi vi era
la convinzione che nelle città più grandi come Firenze e Milano i
sussidi fossero più elevati e venissero erogati con maggior
continuità rispetto ai comuni più piccoli. Frequenti erano poi le
proteste contro il Patronato quando veniva negato soccorso ad alcuni
profughi mentre altri, anche benestanti, venivano ingiustamente
favoriti in ogni modo. A tal proposito una profuga i Carpacco scrisse
indignata che persone facoltosecontinuavano a prendere il sussidio
che invece a lei era stato negato per aver trovato lavoro. A Firenze
poi le proteste evidenziavano come i sussidiati frequentassero luoghi
pubblici dove usufruivano di beni e servizi che tradivano la loro
asserita povertà. A riguardo decise d’intervenire l’Alto
commissariato con diverse circolari raccomandando la necessità di
evitare abusi e incitando le persone abili alla ricerca di un lavoro.
Uno dei modi che permettevano di risparmiare sull’erogazione del
sussidio era infatti quello di far trovare lavoro ai profughi
privilegiandoli rispetto agli abitanti locali, strategia che comunque
non risolveva il problema della disoccupazione e inoltre innalzava il
livello del conflitto sociale. Un'altra incredibile sfida fu quella
di trovare locali idonei per decine di migliaia di profughi che
inizialmente vennero ricoverati provvisoriamente in scuole, alberghi,
conventi e locali privati. Arrivarono sia tramite la ferrovia che con
mezzi di fortuna ed erano spesso sprovvisti di documenti e bisognosi
di assistenza. Durante gli ultimi mesi del 1917 molte furono le
segnalazioni, in particolar modo su giornali interventisti e
nazionalisti, di appartamenti e locali di cittadini di paesi nemici
che furono infatti in buona parte requisiti e messi a disposizione.
Quasi ovunque, ovviamente, le requisizioni di strutture alberghiere e
locali provocò molte lamentele da parte dei proprietari e nelle
grandi città si assistette ad un vertiginoso aumento dei prezzi
degli affitti per scongiurarne l’utilizzo da parte degli sfollati.
Questo provocò una forte discriminazione di classe e in città come
Roma e Firenze potevano permettersi di risiedere solo i più
abbienti. Al contrario, in centri minori, la maggior parte dei
profughi era riuscita a trovare alloggio presso i privati senza
troppe difficoltà. Molte abitazioni o locali messi a disposizione
erano però piccoli e angusti, privi di servizi igienici, acqua
corrente e obbligavano gli inquilini ad una vita decisamente
promiscua dove le tensioni erano frequenti. La convivenza era quindi
molto difficile anche a causa dei continui scontri per l’utilizzo
dei pochi mezzi a disposizione, come la cucina, e quindi ostacolava
la costruzione di reti di solidarietà tra gli sfollati. Un’altra
importante sfida era certamente la questione sanitaria e presso
l’Alto commissariato venne istituita una commissione sanitaria
consultiva con il compito di fornire consigli sull’assistenza
medica e con la facoltà di compiere ispezioni. La circolare del 10
gennaio 1918 stabiliva che le prestazioni mediche, l’assistenza
sanitaria e l’accesso ai farmaci fossero gratuiti per i profughi
poveri ma fu spesso disattesa e li obbligò a pagare per i servizi
richiesti. Ma i problemi più rilevanti si riscontrarono nel ricovero
dei profughi in comuni malarici nell’Italia meridionale specie
nelle provincie di Catania, Lecce, Messina e Foggia. Questo perché
la malaria era ancora una malattia endemica e le precarie condizioni
abitative favorivano la trasmissione della malattia. Condizioni che
favorirono anche il dilagare della spagnola che portò alla morte,
tra l’agosto 1918 e il marzo 1919, circa 600.000 persone. Tra i
profughi vi era inoltre un importante componente femminile che, per
il fatto di essere donne, trovarono ulteriori ostacoli nell’accesso
all’assistenza. Alcune non avevano vicino i propri cari, perché al
fronte o lontani per lavoro, e la situazione era ancora più tragica
se si considera l’assenza di notizie di coloro che risultavano
dispersi o prigionieri. Prive di risorse e spesso costrette alla cura
dei figli, faticavano a trovare un lavoro in grado d’integrare il
sussidio governativo. La presenza di strutture sanitarie, spesso
rudimentali nelle zone disagiate, non garantivano adeguata assistenza
e spesso furono costrette a partorire in condizioni difficili dopo
una gravidanza sanza l’assistenza e l’appoggio dei familiari. In
alcuni casi la disperazione era tale che, in alcuni casi, bambini
appena nati venivano abbandonati sulla strada come accaduto in una
via di Milano. In questo particolare caso la ragazza ventenne venne
rintracciata, arrestata e successivamente aiutata economicamente
dalla Federazione dei profughi. Per il lavoro erano privilegiate le
donne senza figli, nubili che avessero la possibilità di spostarsi
verso zone anche piuttosto lontane rispetto al luogo di residenza.
Oltre ad adattarsi a svolgere mestieri pesanti nell’industria e
nell’agricoltura si moltiplicarono in tutta Italia laboratori di
cucito per la produzione d’indumenti, che divennero in breve tempo
il luogo considerato idoneo per il lavoro femminile. Certo
l’esperienza di lasciare la propria casa e i propri affetti fu
incredibilmente traumatica per i bambini. Molti furono destinati ad
orfanotrofi ed istituti pii che raggiunsero in treno stremati per il
lungo viaggio. Per assistere i bambini sorsero poi numerose
iniziative con l’istituzione di nidi, scuole lavoro e colonie
estive.
I
ragazzi che vivevano in città di grandi dimensioni vennero accolti
in scuole pubbliche o private mentre coloro che risiedevano in comuni
rurali spesso non ebbero la possibilità frequentare la scuola, se
non saltuariamente. Tra i bambini era poi comune, soprattutto nelle
aree rurali, commettere piccoli furti spesso di generi alimentari
come frutta, ortaggi e legna per il periodo invernale che non sempre
era concessa gratuitamente dalle amministrazioni locali. Molti
ragazzi furono poi costretti a lavorare non solo in ambito domestico
ma anche in occupazioni pesanti e pericolose come braccianti nei
campi o nelle fabbriche dove spesso si ricorse a manodopera minorile.
La propaganda non tardò a sfruttare l’immagine dei bambini
proponendo figure eroiche, piuttosto improbabili, che si immolavano
per la patria come il piccolo orfano, che unitosi agli Arditi durante
la ritirata, si arruolò nel Genio come telegrafista dando prova di
coraggio e valore a ridosso delle linee del monte Tomba.
Tratto
da Gli esuli di Caporetto di Daniele Ceschin
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