La prima battaglia dell'Isonzo [vissuta dagli austriaci – parte VII]
La
pianura sputava piombo contro il baluardo dei difensori, dal mare
fino alle colline presso Cormons. Tutti i versanti sconvolti delle
alture rocciose, tutti gli imbuti delle granate e le doline furono
avvolti un'altra volta nelle dense nubi di fumo. Erano stati arati in
profondità dal bombardamento dodici volte in dodici giorni. Questa
era la tredicesima e il lavoro doveva essere portato a termine più
radicalmente che mai. Intanto, i dieci reggimenti delle brigate
“Ferrara, “Brescia”, “Pisa”, “Siena” e “Savona”,
nonché alcuni battaglioni di bersaglieri – in complesso almeno
trentamila uomini -, si accingevano a dare l'assalto a tutto
l'altopiano carsico, da Peteano ai piedi del San Michele fino a quota
77, presso Monfalcone.
Alle
loro spalle tre o quattro divisioni della milizia mobile con altri
quarantamila uomini e il corpo di cavalleria del conte di Torino
erano pronti a lanciarsi all'inseguimento non appena le linee nemiche
fossero state sfondate. Alle 8 del mattino, dopo tre ore di massiccio
bombardamento, fu dato il via all'assalto contro l'altopiano di
Doberdò, con una mare di uomini che doveva spazzar via quanti
sopravvissuti si trovassero ancora in cima. Gli attaccanti uscirono
dai ricoveri intorno a Sdraussina e Sagrado, a Redipuglia,
Vermegliano, Selz e Monfalcone, e cominciarono ad arrampicarsi su per
i pendii brulli. Dietro di loro altri battaglioni occuparono il
canale e la linea ferroviaria e avanzarono nelle zone morte ai piedi
della catena collinosa.
Pochi
minuti furono sufficienti ai difensori per riprendersi. Ai primi
isolati colpi di fucile seguì un crepitio sempre più fitto fino a
diventare un gorgoglio ininterrotto, dozzine di mitragliatrici
cominciarono a sgranare i loro rosari, nuvolette di shrapnel si
alzarono a catena verso il cielo sereno, ventagli di fumo
zampillavano dal suolo che vibrava tutto. I tiri delle artiglierie si
incrociavano e il pendio non offriva alcun riparo contro il fuoco di
sbarramento che proveniva dai fianchi. Qua e là gli attaccanti,
esitarono, in singoli punti furono costretti a fermarsi, dopo aver
subito gravi perdite, e tentarono di trincerarsi. Ma erano in numero
incalcolabile. I primi, che avanzavano in ordine sparso, erano
incalzati, non appena si arrestavano, dalle riserve: raggiunsero la
cresta e si fermarono senza fiato e grondanti di sudore di fronte ai
grovigli di filo spinato. Un fuoco micidiale che scaturiva
dagl'imbuti delle granate e dalle barricate dei sacchi di sabbia, di
dietro le travi e i pali spaccati, li accolse falciandoli.
Dappertutto
dove riusciva a conquistare terreno, il nemico si trovava contro
nuovi accaniti avversari, i quali, incuranti di ogni cautela e accesi
di odio, non trovavano più sufficienti le armi da fuoco per
vendicarsi di coloro che li avevano sottoposti alla lunga tortura e
si precipitavano contro gli attaccanti con i calci dei fucili, le
baionette, i coltelli e le vanghe, ricacciandoli giù dal pendio. Si
combatteva senza una guida, senza un piano, senza metodo. Gruppi di
uomini avviticchiati, ansanti, rantolanti, si muovevano sul terreno
coperto di sassi, fra le urla selvagge dei colpiti a morte. Gli spari
dei fucili e gli scoppi delle bombe a mano risuonavano sempre più
radi. La carneficina venne soprattutto compiuta così, di colpo e di
punta, con le mani che strozzavano e con i blocchi di pietra
scaraventati a braccia.
L'esito
di questa lotta accanita rimase in bilico per lunghe ore. Presso San
Martino del Carso, ai piedi del San Michele, il nemico guadagnava
terreno a passo a passo e respingerlo fu necessario impiegare fino
alle ultime riserve. La situazione dei difensori diventò molto seria
quando forze nemiche soverchianti si incontrarono presso Polazzo con
i resti dei battaglioni IV/38° e IV/81°, spezzando la nostra linea
difensiva. Due battaglioni del 17° Honved accorsero immediatamente
da Marcottini e si gettarono sul nemico. Soltanto a mezzogiorno, gli
italiani furono costretti a riguadagnare le posizioni di partenza.
Nell'attiguo settore di Redipuglia, un reggimento della brigata
“Ferrara” combatteva con ammirevole tenacia per impadronirsi del
terreno già aspramente conteso sul fianco nord-occidentale del Sei
Busi.
Il
teatro della lotta era così ristretto che fu necessario che si
allargasse prima che un nostro contrattacco notturno annullasse il
successo fino allora conseguito dal nemico. Un battaglione di
bersaglieri ciclisti, che venne mandato a rinforzo, dimostrò che la
fiducia che l'Italia riponeva in queste sue truppe scelte era ben
riposta. Armati soltanto di bombe a mano, i valorosi si buttarono
all'assalto, sprezzanti della morte, correndo contro i parapetti di
difesa rapidamente rizzati dai difensori che li circondavano. Le
mitragliatrici li falciarono a file intere. Con il sacrificio di
duecentocinquanta morti e di numerosi feriti gravi, anche
quest'audace puntata fallì: gli attaccanti superstiti, sopraffatti
dal terrore, corsero a cercar riparo verso il terrapieno della
ferrovia.
Poco
prima di mezzanotte, gli italiani tentarono, con tre battaglioni,
quello che non era riuscito durante il giorno a tre reggimenti;
avanzarono a est di Polazzo per accerchiare da sud l'altura presso
Sagrado, ridotta a un campo di macerie. Anche questo estremo
tentativo di salvare l'esito della giornata fu reso vano dall'eroica
resistenza dei difensori.
Le
dodici battaglie dell'Isonzo di Fritz Weber – edizioni Mursia
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