La prima battaglia dell'Isonzo [vissuta dagli austriaci – parte VII]

Il 5 luglio, l'artiglieria italiana riprese il fuoco con l'impiego di tutti i pezzi.
La pianura sputava piombo contro il baluardo dei difensori, dal mare fino alle colline presso Cormons. Tutti i versanti sconvolti delle alture rocciose, tutti gli imbuti delle granate e le doline furono avvolti un'altra volta nelle dense nubi di fumo. Erano stati arati in profondità dal bombardamento dodici volte in dodici giorni. Questa era la tredicesima e il lavoro doveva essere portato a termine più radicalmente che mai. Intanto, i dieci reggimenti delle brigate “Ferrara, “Brescia”, “Pisa”, “Siena” e “Savona”, nonché alcuni battaglioni di bersaglieri – in complesso almeno trentamila uomini -, si accingevano a dare l'assalto a tutto l'altopiano carsico, da Peteano ai piedi del San Michele fino a quota 77, presso Monfalcone.
Alle loro spalle tre o quattro divisioni della milizia mobile con altri quarantamila uomini e il corpo di cavalleria del conte di Torino erano pronti a lanciarsi all'inseguimento non appena le linee nemiche fossero state sfondate. Alle 8 del mattino, dopo tre ore di massiccio bombardamento, fu dato il via all'assalto contro l'altopiano di Doberdò, con una mare di uomini che doveva spazzar via quanti sopravvissuti si trovassero ancora in cima. Gli attaccanti uscirono dai ricoveri intorno a Sdraussina e Sagrado, a Redipuglia, Vermegliano, Selz e Monfalcone, e cominciarono ad arrampicarsi su per i pendii brulli. Dietro di loro altri battaglioni occuparono il canale e la linea ferroviaria e avanzarono nelle zone morte ai piedi della catena collinosa.
Pochi minuti furono sufficienti ai difensori per riprendersi. Ai primi isolati colpi di fucile seguì un crepitio sempre più fitto fino a diventare un gorgoglio ininterrotto, dozzine di mitragliatrici cominciarono a sgranare i loro rosari, nuvolette di shrapnel si alzarono a catena verso il cielo sereno, ventagli di fumo zampillavano dal suolo che vibrava tutto. I tiri delle artiglierie si incrociavano e il pendio non offriva alcun riparo contro il fuoco di sbarramento che proveniva dai fianchi. Qua e là gli attaccanti, esitarono, in singoli punti furono costretti a fermarsi, dopo aver subito gravi perdite, e tentarono di trincerarsi. Ma erano in numero incalcolabile. I primi, che avanzavano in ordine sparso, erano incalzati, non appena si arrestavano, dalle riserve: raggiunsero la cresta e si fermarono senza fiato e grondanti di sudore di fronte ai grovigli di filo spinato. Un fuoco micidiale che scaturiva dagl'imbuti delle granate e dalle barricate dei sacchi di sabbia, di dietro le travi e i pali spaccati, li accolse falciandoli.
Dappertutto dove riusciva a conquistare terreno, il nemico si trovava contro nuovi accaniti avversari, i quali, incuranti di ogni cautela e accesi di odio, non trovavano più sufficienti le armi da fuoco per vendicarsi di coloro che li avevano sottoposti alla lunga tortura e si precipitavano contro gli attaccanti con i calci dei fucili, le baionette, i coltelli e le vanghe, ricacciandoli giù dal pendio. Si combatteva senza una guida, senza un piano, senza metodo. Gruppi di uomini avviticchiati, ansanti, rantolanti, si muovevano sul terreno coperto di sassi, fra le urla selvagge dei colpiti a morte. Gli spari dei fucili e gli scoppi delle bombe a mano risuonavano sempre più radi. La carneficina venne soprattutto compiuta così, di colpo e di punta, con le mani che strozzavano e con i blocchi di pietra scaraventati a braccia.
L'esito di questa lotta accanita rimase in bilico per lunghe ore. Presso San Martino del Carso, ai piedi del San Michele, il nemico guadagnava terreno a passo a passo e respingerlo fu necessario impiegare fino alle ultime riserve. La situazione dei difensori diventò molto seria quando forze nemiche soverchianti si incontrarono presso Polazzo con i resti dei battaglioni IV/38° e IV/81°, spezzando la nostra linea difensiva. Due battaglioni del 17° Honved accorsero immediatamente da Marcottini e si gettarono sul nemico. Soltanto a mezzogiorno, gli italiani furono costretti a riguadagnare le posizioni di partenza. Nell'attiguo settore di Redipuglia, un reggimento della brigata “Ferrara” combatteva con ammirevole tenacia per impadronirsi del terreno già aspramente conteso sul fianco nord-occidentale del Sei Busi.
Il teatro della lotta era così ristretto che fu necessario che si allargasse prima che un nostro contrattacco notturno annullasse il successo fino allora conseguito dal nemico. Un battaglione di bersaglieri ciclisti, che venne mandato a rinforzo, dimostrò che la fiducia che l'Italia riponeva in queste sue truppe scelte era ben riposta. Armati soltanto di bombe a mano, i valorosi si buttarono all'assalto, sprezzanti della morte, correndo contro i parapetti di difesa rapidamente rizzati dai difensori che li circondavano. Le mitragliatrici li falciarono a file intere. Con il sacrificio di duecentocinquanta morti e di numerosi feriti gravi, anche quest'audace puntata fallì: gli attaccanti superstiti, sopraffatti dal terrore, corsero a cercar riparo verso il terrapieno della ferrovia.
Poco prima di mezzanotte, gli italiani tentarono, con tre battaglioni, quello che non era riuscito durante il giorno a tre reggimenti; avanzarono a est di Polazzo per accerchiare da sud l'altura presso Sagrado, ridotta a un campo di macerie. Anche questo estremo tentativo di salvare l'esito della giornata fu reso vano dall'eroica resistenza dei difensori.
Le dodici battaglie dell'Isonzo di Fritz Weber – edizioni Mursia

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