I culti misterici nell’Antica Roma

Un’iscrizione greca rinvenuta a Roma e risalente al III-IV secolo d.C., esposta nel 2005 al Colosseo durante una mostra dedicata ai culti misterici, appartenuta al sepolcro di un fanciullo che i genitori avevano già eletto “sacerdote di tutti gli dèi”, recitava letteralmente così: “
In loro onore sempre ho celebrato solennemente i Misteri, ma ora ho lasciato la dolce luce del sole. Perciò voi, iniziati o compagni di ogni sorta di vita, dimenticate i sacri Misteri, uno dopo l’altro, poiché nessuno può spezzare la trama del destino. E io, l’augusto Antonio, vissi soltanto sette anni e dodici giorni”.
Il filo di questa giovane vita si spezzò certamente troppo presto, ma quel che attira la nostra attenzione è la parola “misteri”, da interpretare certamente in modo differente rispetto a quanto si faccia oggi. Ciò che infatti, in epoca moderna, è sinonimo di occulto e incomprensibile, ai tempi dell’Antica Roma (ed anche in altre culture, precedenti o contemporanee a quella romana) indicava piuttosto un’esperienza religiosa profonda, che toccava la fede dell’individuo ed in particolare le sue speranze per l’aldilà. Con la parola “misteri”, all’epoca, si sottintendeva un universo di riti segreti e di cerimonie notturne, che procuravano, a coloro che venivano ammessi a parteciparvi, una sorta di mistica esperienza divina, che regalava all’iniziato la speranza di un’imminente salvezza.
Come accennato, ogni civiltà ed ogni cultura ebbe i propri “misteri”, da Demetra a Dioniso, da Iside a Mitra. Attraverso il sincretismo, poi, grazie ad una mescolanza di fedi e culti, i culti misterici conobbero una diffusione sempre più ampia: l’accanimento con cui Clemente di Alessandria ed altri autori cristiani combatterono le esperienze misteriche dimostra l’importanza che esse ancora avevano nel tardo Impero Romano.
Al di là delle ovvie peculiarità che differenziavano ogni culto misterico dagli altri, l’elemento comune a tutti questi culti era il mantenimento del segreto. Come indicato nei misteri di Eleusi, dedicati a Demetra, “non è consentito profanare né indagare né rivelare, poiché la reverenza per gli déi trattiene la voce”; chiunque profanasse i riti o rivelasse il segreto, se colto in flagrante, poteva essere condannato seduta stante dai sacerdoti e giustiziato senza appello. Un celebre processo, in tal senso, fu quello avente come imputato il celebre generale greco Alcibiade, che nel V secolo a.C. venne condannato a morte in contumacia e maledetto ritualmente dai sacerdoti per aver deriso i misteri in casa propria, per burla e in stato di ebbrezza.
Le fonti letterarie abbondano di riferimenti terminologici (mysteria, initia) ma offrono ben pochi particolari sulle modalità delle celebrazioni e sui contenuti teologici di ogni singolo culto: la motivazione di questa carenza informativa nasce proprio dall’obbligo, per chiunque prendesse parte ai riti, di mantenere il segreto. Si aggiunga a ciò che la stragrande maggioranza delle testimonianze sull’argomento è costituita da notizie di autori cristiani, che appaiono impegnati soprattutto a difendere il Cristianesimo da ogni pericoloso raffronto con i “miserabili culti pagani”, sul principio secondo cui la storia viene scritta dai vincitori. In tal senso, i molteplici reperti archeologici legati al fenomeno dei culti misterici contribuiscono ad allentare i nodi, ma non sciolgono la matassa, che resta particolarmente intricata.
Altro elemento che sembra fungere da elemento di contatto fra tutti i culti misterici è la presenza di una cerimonia iniziatica di ammissione, al termine della quale l’ammesso al culto riceveva una sorta di rivelazione di alcuni segreti connessi alla divinità, la cui conoscenza apriva il portone di una salvezza promessa e data come certa, in virtù di un legame più personale ed intimo con la divinità stessa. Tale comunione, intima e privata, con l’entità superiore si realizzava mediante una sorta di “visione o illuminazione”, che donava all’iniziato che avesse contemplato il segreto misterico emozioni e sentimenti nuovi: nei culti misterici, quindi, la salvezza equivaleva ad una trasformazione spirituale dell’individuo, che si sentiva maggiormente conscio della realtà circostante avendone compreso (almeno in parte) il dipanarsi dei fili.
Fu solo con il progressivo svilupparsi del concetto di “anima” che tali fenomeni religiosi puntarono anche verso altri obiettivi, promettendo la speranza di un oltretomba migliore e di una redenzione ultraterrena dell’anima stessa.

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