Deportazioni in massa oltre il Piave. Senza casa, senza pane profughi meno che poveri

L'esodo biblico cominciò il 25 ottobre, il giorno dopo Caporetto. Il “Tam tam” del disastro lo suonarono le facce smarrite e stravolte dei soldati, senza armi, che scappavano incalzati dall'armata del generale Von Below. Il fiume dei fuggiaschi, soldati e popolazione, si ingrossò di paese in paese. Il 26 ottobre dopo Udine c'erano 12 chilometri di strada occupata da un groviglio di carrette e camion militari. In silenzio assoluto. Ma sui ponti del Tagliamento, Delizia e Pianzano, era una babilonia. Quando i ponti saltarono, sfumò il sogno della libertà verso l'Italia. Anche i ponti fatti brillare il 9 novembre sul Piave tagliarono il cordone ombelicale con la patria.
Al grido di “arrivano i tedeschi” fecero saltare il ponte – racconta Maria Gatto di Oderzo – Mia madre prese me e i tre fratellini e corremmo come pazzi verso la stazione. Ma il treno, già stracarico, non si fermò. Pochi attimi dopo, saltò il ponte. Disperati, tornammo a casa. La corte era già occupata dai cavalli dei tedeschi. La fiumana verso l'Italia arrivò a Treviso il 27, ma si disperse subito in mille rivoli, seguendo i fili d'Arianna di amicizie e parentele. Una fortuna non per tutti. Ai bambini cattivi si agitava uno spauracchio: “Ti faccio mangiare dai profughi”. Senza cattiveria, ma gli esuli creavano enormi problemi ai residenti. “Ci ha salvato una signora – ricorda Luigi Lorenzon di Roncade – che ci ha ospitato a Milano. Altrimenti ci avrebbero spedito a Napoli.
Ho trovato lavoro in un laboratorio di raggi X, la sera studiavo. Cosa potevo pretendere di più? In casa entravano 3 lire della mia paga e 5 di mio padre”. Il ricordo più bello Lorenzon lo tiene stretto in pugno: una medaglietta. “Me l'hanno regalata in una manifestazione per i profughi perchè portavo la bandiera di Treviso”. Ben più drammatica la deportazione imposta dagli austriaci agli abitanti di Segusino e il mare, a ridosso del Piave. Fu l'odissea di un popolo condotto a morir di fame: il tasso di mortalità del 10/15 per cento di prima della guerra aumentò al 47%, la maggior parte per fame e malattie.
Con un sospiro, Ida Dal Bianco di Quinto, racconta una storia agghiacciante: “C'era una mestolaia originaria delle terre invase. Confessava che aveva rinchiuso i suoi figli nella porcilaia per non vederseli morire di fame davanti agli occhi”. Il monotono “raus” degli austriaci scandì lo sgombero di donne, vecchi e bambini. Destinazione della drammatica marcia: i paesi della Pedemontana e del Friuli.
[...]
Ancora più duro il diario di Caterina Arrigoni, maestra di Valdobbiadene, profuga a Tarzo: “Dopo la prima esplosione di pietà, i profughi sono venuti a noia, a disprezzo, a ribrezzo quasi. Questa parola, profugo, ha preso un significato d'infamia. La popolazione si mostra ostile verso i poveretti, tanto più che la difterite fa strage in mezzo ai nostri bimbi e ormai ci sono tanti morti. Rinfacciano la mancanza di pulizia. Ma dormono in 15 per stanza, senza scope, sapone, cibo, medicinali, col freddo e i sudiciume. Per forza scoppiano le epidemie. L'accusa assurda per eccellenza è di far crescere i prezzi perchè...pagano!”
Stranieri tra la gente che parla lo stesso dialetto, accattoni, ladri, untori, i profughi, di ritorno fra le macerie delle loro case, poterono infine mormorare: “Almanco qui, siora, no se ghe inzende a nessun”.
Francesca Detotto – Veneto 1915-1918 La Guerra in casa

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