La battaglia di Udine
Quella
che fu combattuta alle porte e nel cuore della città fu l’unica
importante battaglia urbana della Grande Guerra. Rimase per molto
tempo misconosciuta, stretta tra le necessità di non smentire il
mito negativo della disfatta di Caporetto come conseguenza di uno
“sciopero militare”, nella ricostruzione fascista del primo
dopoguerra e, nel secondo dopoguerra, di non dover troppo riconoscere
i meriti di quegli Arditi che, nonostante i grandi sacrifici di
sangue versato sul campo di battaglia, una certa storiografia aveva
etichettato come “precursori” del fascismo.
Così quella
eroica pagina di storia locale e nazionale venne relegata nella
soffitta della memoria, quasi che a scoperchiarla, chissà quali
fantasmi avrebbero nuovamente aleggiato.
Ma
se la storia è sicuramente scritta dai vincitori, il tempo è spesso
galantuomo anche per i dimenticati. È così che lentamente anche
quell’episodio, rivisitato, analizzato, ha squarciato una certa
retorica disfattista sulla battaglia di Caporetto, dimostrando
come fu proprio l’eroismo di capitani e soldati semplici a salvare,
con ripetute “battaglie di retroguardia”, l’esercito italiano
consentendogli un relativo ordinato ripiegamento fino al Piave.
Quella
ritirata biblica dall’Isonzo al Tagliamento, due milioni di
soldati, mezzo milione di profughi, che tanto contribuì alla
formazione di una coscienza unitaria nazionale, non avrebbe mai
potuto trasformarsi, come poi fu, in una grande vittoria, senza il
sacrificio di quei soldati e di quegli ufficiali che, quasi senza
ordini, rallentarono l’avanzata austro germanica il tempo
necessario a consolidare le difese sul Piave.
Furono
ben quattro le “battaglie di retroguardia” che svolsero il
compito di frenare l’avanzata teutonica, la battaglia di
Castelmonte-Cividale, quella di Udine, quella di Pozzuolo e quella di
Ragogna-Cornino.
Senza
queste battaglie, le divisioni tedesche di Otto von Below avrebbero
circondato la III Armata del duca D’Aosta e il disastro sarebbe
stato totale.
La battaglia di Udine, però, fu l’unica che
coinvolse una città intera, e, altra caratteristica, fu combattuta
principalmente da quegli Arditi che poi vennero bollati, nel secondo
dopoguerra, da una parte della storiografia, come responsabili di
terribili nefandezze.
Dopo
la battaglia d’arresto del 27 ottobre a Castelmonte, le truppe
tedesche avanzarono fino al Torre, dove, ad attenderli, era stato
costituito un corpo d’armata raccogliticcio agli ordini del
generale Negri di Lamporo.
Reparti di bersaglieri, di alpini, di
cavalleria e di arditi, costituivano un esilissimo “argine”
che separava Udine dai tedeschi avanzanti.
Quelle
che sulla carta venivano indicate come brigate, erano in realtà
unità di poche centinaia di uomini stanchi e affamati per le marce
senza sosta e quasi senza armi pesanti, abbandonate per non
rallentare la ritirata.
Il greto del Torre, quasi sempre asciutto,
largo poche centinaia di metri, rappresentava l’unico elemento
naturale di difesa per quei soldati, lasciati al loro destino per
salvare quello di milioni di italiani.
Il
punto debole del “fronte” era nel tratto tra Beivars e il ponte
di San Gottardo, dove il torrente era più facilmente guadabile. Fu
lì, infatti, che avvenne la rottura.
Dopo
le prime scaramucce nella notte del 27, ecco che all’alba del 28
ottobre incominciò la battaglia vera e propria per il controllo
della città.
I soldati italiani, esausti per le marce sopportate,
demoralizzati per la rotta subita, dovevano affrontare le migliori
truppe tedesche, forse le migliori del mondo.
Il
Corpo d’Armata Berrer era stato il vero protagonista dello
sfondamento delle linee italiane, gli austriaci erano ormai relegati
al ruolo di comprimari. Tutte le operazioni militari della “battaglia
di Caporetto” furono guidate dai vertici tedeschi.
Le
divisioni dei generali Ernest von Below e Hofacker sfociarono nelle
valli del Natisone, superarono la strenua difesa degli italiani a
Castelmonte e si lanciarono all’inseguimento delle truppe italiane.
Furono
reparti di queste divisioni a cozzare contro la linea difensiva del
Torre che proteggeva la città di Udine.
All’alba
del 28, divisioni di Jäger prussiani e bavaresi riuscirono a
sfondare all’altezza dell’abitato di Beivars (a nord di Beivars
reparti italiani rimasero sulle loro posizioni fino a sera del 28).
La
difesa dei bersaglieri italiani fu tenace ma gradualmente cedette
all’impeto dei prussiani.
Tutta
la linea difensiva che proteggeva la città rischiava di
crollare.
Vi
furono testimonianze di valore inestimabili. Il capitano Pietro di
Galbo, siciliano, preso d’infilata dal fuoco delle mitragliatrici
tedesche e accerchiato, ordinò alla sua compagnia la formazione “a
quadrato” (memore della sua esperienza coloniale in Libia) e
resistette fino alla morte insieme all’ultimo uomo disponibile,
consentendo alle altre truppe di ritirarsi.
Reparti
di cavalleria italiana, agli ordini del barone Luigi Ajroldi di
Robbiate, udinese d’adozione, contrattaccarono all’arma bianca
con una carica così perfetta che lo stesso comandante tedesco
dovette suo malgrado ammetterne la grandezza.
I
cavalieri furono falciati dalle mitragliatrici tedesche, capaci di
sputare 400 colpi al minuto e caricate con proiettili esplosivi.
Fu
una strage, ma nonostante ciò, talmente grande fu la furia della
carica che taluni cavalieri italiani riuscirono a sciabolare alcuni
mitraglieri tedeschi, ritardando comunque l’avanzata tedesca in
città.
Ora
però gli Jäger erano liberi di prendere alle spalle il comando del
Corpo d’Armata del generale Negri di Lamporo, dislocato
nell’abitato di San Gottardo a poche centinaia di metri dal ponte
di San Gottardo.
I soldati italiani che erano riusciti a
disimpegnarsi a Beivars, bersaglieri e cavalleggeri, ripiegarono
seguendo la via Bariglaria, verso il comando della Firenze (posto
nella casa di Giuseppe Vida, ultimo abitato di San Gottardo)
inseguiti dappresso dai germanici.
Le
truppe che presidiavano il ponte erano così costrette a difendersi
da due lati, strette tra gli attacchi che provenivano dal Torre e le
unità tedesche che arrivavano da Beivars.
Ben
presto la situazione divenne insostenibile, protetti solo da difese
improvvisate, costretti a subire la potenza devastante delle
mitragliatrici tedesche, lentamente i militari italiani dovettero o
arrendersi o arretrare verso la nuova linea di difesa, localizzata
lungo la ferrovia.
La
resistenza sul ponte terminò tra le 8.30 e le 9. Mentre soldati,
capitani e colonnelli si facevano massacrare (fu ricordato da tutti i
testimoni l’eroismo del tenente colonnello Scotti Douglas,
napoletano, che tenne ferma la posizione sul ponte di San Gottardo e
accerchiato, guidò un attacco alla baionetta al grido di “viva
l’Italia”, fulminato infine da una pallottola alla testa), il
generale Negri di Lamporo si riparò dietro la linea della ferrovia,
nei pressi di Porta Cividale (Porta Pracchiuso).
Per un’imprevista
quanto felice decisione, il generale Pietro Badoglio, utilizzò,
senza aver ricevuto alcun ordine in tal senso dai suoi superiori, due
dei quattro reparti di arditi a sua disposizione, per tappare la
falla che si era aperta a Beivars.
Questa
decisione era stata presa con l’intento di proteggere la ritirata
delle sue truppe che stavano ripiegando verso il ponte di Pinzano
(ponte strategicamente importante).
Gli
arditi del I e del IV reparto, dopo aver marciato per quasi 100 km,
dal monte Korada a Udine, guidati dal capitano Maggiorino Radicati
conte di Primeglio, (impregnato di tradizione militare sabauda)
frammischiati con ciclisti-bersaglieri e cavalleggeri appiedati,
affrontarono i tedeschi che, a grosse pattuglie, avanzavano verso
Porta Cividale.
Quando
gli arditi (giunti da Cussignacco dove avevano dormito all’addiaccio
alcune ore nella notte) si trovarono vicino a Porta Pracchiuso (che
allora era una porta daziaria), trovarono i bersaglieri-ciclisti che,
con le ultime riserve di uomini e di mezzi cercavano di bloccare
l’avanzata dei lanzichenecchi prussiani.
Tra
la città e i tedeschi vi erano non più di 1.500 uomini, tra Fiamme
Nere e bersaglieri. Gli arditi attaccarono, la difesa non faceva
parte del loro addestramento né del loro spirito.
Si
combatteva tra le case, nelle case. Uno ad uno i pattuglioni
tedeschi vennero affrontati, vinti, dispersi.
Talmente
grande fu l’irruenza del contrattacco delle Fiamme Nere che i
prussiani furono costretti a ritirarsi fino al Torre. Lì vennero
coadiuvati da reparti tedeschi sempre più numerosi.
Le
mitragliatrici tedesche pesanti fecero sentire il loro
crepitio, la loro terribile forza distruttiva, cui gli arditi
potevano opporre solo le loro armi leggere, le loro bombe a mano e i
loro temibili pugnali.
Il
fronte si ruppe in mille focolai di battaglia. Gli arditi aspettarono
che le mitragliatrici tedesche facessero silenzio, per balzare sui
tedeschi ed eliminarli uno ad uno.
Tecnicamente
erano le famose “reti” delle Fiamme Nere che tanto terrore
arrecavano agli austro-germanici (per rendere plastica tale tattica
di battaglia, basterebbe citare il racconto del graduato M. Ferrero
che, trovato il cadavere del tenente degli arditi Aimè, così lo
descrisse “ancora caldo, col pugnale sanguinante stretto nella mano
e due tedeschi vicino, in un lago di sangue”).
Fu
in questa fase della battaglia che perse la vita il generale tedesco
Albert von Berrer, württemberghese, comandante del LI Corpo
d’Armata.
Il
generale era convinto che la “sua ventiseiesima divisione”
avesse già occupato la città. Passando sul greto del fiume
con la sua automobile giunse nei pressi di San Gottardo proprio nel
momento di maggiore resistenza di arditi e bersaglieri intorno alle
10.30 del mattino del 28.
Allo scoperto, con quell’arroganza
così tipica dei tedeschi che li fece sempre vincere le battaglie e
sempre perdere le guerre, l’automobile del generale venne
affrontata dal coraggioso sergente dei bersaglieri Giuseppe Morini,
di Civitavecchia, che sparò tre colpi contro l’auto facendo secco
proprio il generalone tedesco.
Fu
una perdita gravissima per i tedeschi. Il generale Berrer era
uno degli ufficiali superiori di maggior valore e di maggior
preparazione. Era invidiato addirittura dai prussiani che sempre
guardarono dall’alto in basso bavaresi, austriaci e württemberghesi
(i prussiani erano usi dire “i bavaresi sono l’anello di
congiunzione fra l’uomo e l’austriaco”).
L’uccisione del
generale Berrer fu l’ultimo successo parziale delle truppe italiane
quel giorno; lentamente quanto inesorabilmente, continuavano ad
affluire contingenti tedeschi sempre più numerosi e gli arditi con i
pochi bersaglieri rimasti in vita, si ritirarono verso Porta
Pracchiuso.
La linea del fronte si fissò sulla circonvallazione,
dove comincia la città vecchia.
Udine
era praticamente deserta, 32.000 dei 47.617 abitanti erano già
fuggiti, in treno, a piedi, su mezzi di fortuna.
La
resistenza a Porta Pracchiuso fu disperata. La lunghezza del tratto
da difendere consentiva a grosse pattuglie tedesche di infiltrarsi
dietro la linea della circonvallazione, prendendo di lato o alle
spalle gli arditi che tenevano le posizioni.
Pressati
da ogni lato gli arditi cercarono ancora di ritirarsi sul castello,
per un’ultima disperata difesa. Ma ormai i tedeschi erano penetrati
in città da ogni rivolo.
Piazza
Umberto (Piazza I Maggio) era già circondata da reparti di
mitraglieri tedeschi, gli italiani presi da fuoco d’infilata da
ogni lato, cercarono la salvezza salendo il viottolo che dalla piazza
giunge al castello.
Ma
il cancello era chiuso, alcuni arditi riuscirono a scavalcarlo, altri
in basso affrontarono alla baionetta i tedeschi che arrembavano.
Fu
la fine, quei pochi arditi sopravvissuti furono costretti ad
arrendersi (8 ufficiali, tra cui il maggiore Radicati e 73
soldati).
La
resistenza degli arditi proseguì per l’intera giornata, a Porta
Gemona, a Porta Villalta e in molti altri punti della città. Fu
una giornata di morte, ma anche di gloria per quei reparti che
con il loro sacrificio consentirono, non solo all’esercito in
ritirata, ma anche a tutti i civili in fuga, salvezza e rifugio oltre
il Tagliamento.
Ecco
come il sottotenente Enrico Benci, toscano, riassunse la battaglia di
Udine: “Poche
compagnie, fra cui la mia, hanno avuto il compito di difendere Udine.
È stata una battaglia senza speranze, ma grande. Soli, senza
rinforzi, isolati nella fiumana degli invasori che ci assalivano e ci
circondavano da tutte le parti, abbiamo combattuto per le strade, per
i viali, per le piazze di Udine”.
Questa
grandezza già nel primo dopoguerra venne negata da chi sosteneva che
gli Arditi a Udine si fossero lasciati andare a deplorevoli atti,
quali saccheggi e uccisioni di civili.
Ora,
è del tutto evidente che soldati che avevano affrontato terribili
prove fisiche e morali e che dovevano anche trovare le forze per
affrontare, quasi da soli, i tedeschi, abbiano cercato conforto
nei negozi alimentari abbandonati dai proprietari. Era
addirittura una assoluta esigenza militare quella di non lasciare
viveri alle truppe tedesche che, anch’esse, cominciavano a
esaurire le proprie forze per il prolungato sforzo durante
l’offensiva.
L’accusa di uccisione di civili fu invece pura
diffamazione, di chi non amò mai questo reparto, troppo “speciale”,
troppo autonomo, secondo gli schemi della vecchia tradizione sabauda
e borghese. Come concordemente raccontato da molti militari italiani,
la bolgia della ritirata aveva permesso a numerosi militari tedeschi
“travestiti” da civili di entrare in città, per fare da
“cavallo di Troia” alle truppe tedesche avanzanti.
Questa
fu la “Battaglia di Udine”.
Dal
29 ottobre del 1917 al 3 novembre 1918 Udine rimase sotto il tallone
dell’occupazione austro-tedesca, con tutto quello che comportava in
termini di violenze, ruberie, assassini, ai danni di quella
parte della popolazione udinese che non aveva voluto o potuto
mettersi in salvo.
Università
degli studi Cà Foscari di Venezia – Facoltà di Storia – La
Grande Guerra Italiana le battaglie – docente prof. Coglitore Mario
– partecipante come uditore -
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