Interventisti e neutralisti
Era stata anticipata la chiamata della classe 1895 e non era buon
segno: il decreto reale del 22 ottobre 1914 stabiliva che le
«operazioni di leva sui giovani nati nel 1895 saranno iniziate nel
corrente anno 1914». La chiamata fu anticipata al 12 gennaio 1915
sia per le prime sia per le seconde categorie.
Nel corso dei mesi tra l’agosto 1914 e gli inizi del 1915 si
intensificarono le chiamate delle seconde categorie per i previsti
periodi di addestramento: il 21 agosto furono chiamati quelli della
2ª categoria della classe 1893, e il 10 novembre quelli della 2ª
categoria della classe 1894, le cui prime categorie erano alle armi. Il
21 agosto si era anche proceduto a chiamare per sei mesi i soggetti
a leva delle classi anteriori al 1893 che non avevano mai ricevuto
istruzione militare. Si decise, anche, di trattenere sotto le armi la
prima categoria della classe 1892 (che già si era vista rimandare il
congedo in attesa del rimpatrio dei contingenti in Libia)
considerandola richiamata. Nel contempo si richiamarono tra il
luglio e l’agosto per un periodo di “istruzione” (15 luglio 1914 –
25 novembre 1914) le prime categorie delle classi 1891, 1890 e
1889 al completo; in novembre furono chiamate le reclute della
classe 1894 in congedo illimitato perché fratelli di richiamati delle
classi 1891, 1890 e 1889 (che furono congedati) e si procedette,
poi, ad ampi richiami per distretti, corpi e specialità sempre per
periodi di “istruzione”. E ciò alla fine serviva per aumentare, di
fatto, il numero di uomini presenti alle armi in un dato momento.
Premuto da un lato, dalla necessità d’esser pronto per la guerra,
dall’altro di non precipitare la situazione con l’ex alleato, che per
altro aveva ovviamente l’intero esercito già mobilitato, il Comando italiano, che aveva già schierato truppe di copertura a ridosso del
confine orientale, via via rinforzate con altri contingenti, solo il
primo marzo ordinò la mobilitazione «rossa» dal colore dei
documenti relativi. Come Cadorna spiegò nelle sue “Memorie” la
mobilitazione «rossa» consisteva sostanzialmente nel «mobilitare
nelle guarnigioni le unità che ancora non erano state inviate alla
frontiera per essere poi avviate ai luoghi di destinazione» [Cadorna
54]. Il centro di mobilitazione della Brigata Granatieri era posto a
Parma e ancora una lapide lo ricorda. In maggio poi si passò alla
mobilitazione occulta: i soldati furono richiamati con avvisi (cartoline) personali e non con i consueti bandi affissi dai comuni.
L’11 dicembre del 1914 “Il Po” aveva plaudito all’indirizzo del
governo, sottolineando che sarebbe stato sostenuto il: «programma di pace e di neutralità fin che sarà possibile, pur tenendosi
preparati a ogni evento [...] l’Italia deve confortarsi nel pensiero di
un Ministero vigile e prudente, il quale o colla pace o colle armi [il
corsivo è mio] saprà condurla al conseguimento di quelle aspirazioni
che, senza tanti blateramenti, sono nelle aspirazioni del suo
popolo». I moderati in sostanza avrebbero fatto il loro dovere,
secondo gli interessi dell’Italia, ovviamente interpretati dal
governo.
La guerra comunque era un’opzione possibile, anche se
al momento, non auspicabile. Simile, ma non identica la posizione
de “Il Risveglio” di Paolo Bignami: «La neutralità di oggi non
significa che domani noi, di fronte allo svolgersi degli eventi, non
possiamo essere costretti ad una diversa attitudine […]». Si
scriveva in poche parole di volere la pace, ma a certe condizioni
non si escludeva la guerra. Le simpatie dei liberal democratici (ma
anche dei moderati) già all’inizio, però, andarono ai paesi
dell’Intesa, alla piccola Serbia, (paragonata al Piemonte del ’48 e
del ’59), al Belgio invaso contro ogni diritto internazionale, con più
di un pensiero alle terre irredente. Se alla Germania l’Italia doveva
il Veneto e Roma e se viva era l’ammirazione per i successi
tedeschi in campo scientifico ed economico, l’alleanza con
l’Austria non era mai stata popolare e di fatto in contrasto con le «nostre legittime aspirazioni» (almeno così opinavano i liberal
democratici di Paolo Bignami), tanto che era innegabile la francofilia del nostro paese.
Affisso sotto la Loggia comunale in Piazza XX Settembre e
letto abitualmente da Battista, “Il Secolo” di Milano era il naturale
punto di riferimento per i democratico-radicali di Codogno. Il
giornale aveva in quegli anni cambiato proprietà e linea editoriale: i
nuovi proprietari (il gruppo Pontremoli – La Torre) avevano
affidato il quotidiano a Edgardo Pantano, ma poiché Pantano era
stabilmente a Roma per i suoi impegni politico-parlamentari, la
guida del quotidiano fu tenuta da Mario Borsa, nato nel 1870 in un
piccolo centro vicino a Codogno, Regina Fittarezza, quando la
località era ancora comune indipendente (Regina Fittarezza fu
aggregata nel 1873 al comune di Somaglia). In agosto “Il Secolo”
di Mario Borsa fu per una neutralità «vigile», di fatto non assoluta.
Si riteneva però che il conflitto sarebbe rimasto circoscritto e
comunque, se per malaugurata ipotesi si fosse generalizzato, non
avrebbe potuto essere che breve se non altro per motivi
economici: in Francia lo statistico ed economista Carlo Richet
aveva calcolato che non sarebbe costato meno 274.000.000 di
franchi senza calcolare i tremendi costi umani. Ma già il 20 luglio
Mario Borsa in un editoriale aveva definito non ipotizzabile un intervento a fianco dell’Austria (la Triplice era considerata «morta») e
a metà agosto Borsa stesso aprì il giornale alla collaborazione di
Cesare Battisti, riparato in Italia il 12 di quel mese.
L’assassinio di Jean Jaurés (alla cui famiglia il Comune di
Codogno inviò le più sentite condoglianze), il fallimento della II
internazionale, l’invasione del Belgio, la posizione interventista
assunta dalla Massoneria (di cui si diceva che Paolo Bignami fosse
membro) con l’ordine del giorno del Gran Maestro del Grande
Oriente Ettore Ferrari trasmesso a Salandra il 6 settembre 1914,
portarono all’ordine del giorno del 14 settembre con il quale il
Partito radicale si dichiarava per l’intervento a fianco dell’Intesa.
Per l’intervento si espressero anche Angiolo Cabrini e Leonida Bissolati, che de “Il Secolo” era collaboratore per quanto riguarda
la politica estera. In novembre in Francia si costituì il corpo dei
volontari italiani, comandato da Peppino Garibaldi. Le sottoscrizioni pro Belgio ebbero anche a Codogno riscontro, né
mancarono le manifestazioni di simpatia per il piccolo paese:
l’inno belga si udì a Codogno, nell’agosto del 1915, quando il
Comitato dell’Unione delle donne cattoliche organizzò una
conferenza del padre barnabita Cesare Barzaghi, il quale sottolineò
come il «furore protestante» dei germanici si fosse accanito contro
innocenti civili, preti, chiese e biblioteche. Il buon conferenziere
ebbe parole di fuoco per il «luterano» impero germanico (dove,
però, il cattolicesimo era ben presente), cui per altro dichiarammo
guerra, controvoglia, solo nel 1916.
I socialisti codognesi, ligi alle risoluzioni della maggioranza del
partito, si schierarono immediatamente, senza se e senza ma, si
direbbe oggi, contro una guerra che il gruppo parlamentare socialista definiva «di imperialismo e dispotismo». In realtà non tutti i
socialisti italiani escludevano a priori una guerra difensiva qualora
il paese fosse palesemente attaccato: ma «nella pratica il vero è -
scrisse l’”Avanti!” il 30 gennaio 1915 - che l’Italia non è aggredita,
e non si trova neppure in pericolo di esserlo [...]». Sempre secondo
l’ “Avanti!”, per gli altri partiti socialisti europei, nell’agosto del
1914, la questione si era posta in altri termini: ognuno di essi aveva
potuto, infatti, credere, prestando ascolto a un’opinione pubblica
sovraeccitata dalla propaganda, che il proprio paese fosse stato
aggredito o gravemente minacciato in quei convulsi giorni di
ultimatum e mobilitazioni.
I Cattolici, per parte loro, non potevano ignorare il pensiero di
Benedetto XV, eletto al soglio pontificio il 3 settembre 1914, alla
morte di Pio X. Il nuovo Papa si era subito mostrato ostile alla
guerra ed estremamente preoccupato per un conflitto che vedeva
schierate in campi avversi alcune fra le maggiori potenze
cattoliche: con l’enciclica Ad Beatissini Apostolorum la Santa Sede
aveva già in novembre levato un appello alla pace in Europa.
Tant’è che il governo tedesco aveva ritenuto possibile un’azione
mediatrice del Vaticano tra Roma e Vienna volta essenzialmente a
convincere gli austriaci a cedere al Vaticano il Trentino che poi il
Vaticano stesso avrebbe consegnato all’Italia.
Il mondo cattolico, considerato nei suoi aspetti culturali e
politici, registrò posizioni diverse, complesse e spesso anche,
contraddittorie. L’”Unità cattolica”, rivista che raccoglieva i vecchi
intransigenti, nei quali ancora si rilevano gli echi del pensiero di
Cesare Balbo, nell’Austria vedeva il baluardo contro l’irrompere
nefasto dell’ortodossia slava e nella guerra i frutti della ribellione
della società umana alle leggi divine, fomentata dalla massoneria
rappresentata dalla Francia laica e repubblicana. C’era, però, un
neutralismo assoluto dettato da preoccupazioni d’indole sociale
che condannava ogni guerra poiché il «comandamento non
ammazzare non ammette adulterazioni di sorta» come scrisse il 22
agosto 1914 “Il Cittadino” diretto da don Quaini, la cui posizione,
a dire il vero, al tempo della guerra di Libia era stata un po’
diversa. E ancora “Il Cittadino”, il 30 gennaio 1915, proclamò che
«ci vuole una buona dose di incoscienza, o di isterismo patriottico,
o di audacia, per invocare una pioggia di piombo quando il popolo
domanda del pane». Ma c’era anche un interventismo cattolico
democratico (si pensi alla Lega democratica di Eligio Cacciaguerra
e Giuseppe Donati) cui faceva da contraltare l’interventismo a
tinte nazionaliste del deputato veronese Luigi Montresor. Così dal
settembre del 1914 nella Chiesa di Santa Maria della Neve a
Codogno, ogni venerdì, si era pregato solennemente per la pace,
mentre Don Camillo Meazzini, cappellano della Croce Rossa, il 28
luglio 1915 a Caviaga poteva lanciare lo slogan «Religione e Patria»
e proclamare, forzando non poco la Storia, che «a vantaggio della
Patria sempre operò la religione nostra». Comunque la stragrande
maggioranza dei cattolici finì per aderire a un neutralismo che, pur
nel quadro del pacifismo universale della Chiesa, si dichiarava
possibilista nel merito dell’intervento italiano.
L’Unione popolare
del conte Giuseppe Dalla Torre nel gennaio del 1915 distinse tra il neutralismo della Chiesa, assoluto, e il neutralismo dei cattolici
italiani, condizionato dalla «inviolabilità di quei diritti, di quelle
aspirazioni, di quegli interessi che costituiscono il patrimonio
morale della Nazione». Affermazioni generiche, che potevano
anche sostenere l’interesse, appunto, italiano su terre che d’italiano avevano poco o nulla. Così, il deputato cattolico Filippo
Meda, neutralista prima, interventista poi, poté entrare nei governi
di guerra Boselli e Orlando. Ferma restando la condanna della
guerra in sé, nel quadro del pensiero di Benedetto XV, in pratica
nella vita quotidiana i cattolici furono esortati all’obbedienza alle
leggi e alla collaborazione con le autorità governative. Alcuni
sacerdoti ed ecclesiastici si spinsero molto oltre nella propaganda
bellica, fino a finire, di fatto, nel nazionalismo; altri in cuor loro
continuarono a ritenere la guerra un’assurdità, specie in un paese
dove più che altro prosperava la miseria.
Pacifisti intransigenti erano i tolstoiani, un movimento d’opinione che aveva influenzato il pensiero del dott. Aschenbrödel
(Giovanni Pioli), di Gennaro Avolio e del pastore valdese Giuseppe Banchetti, tutti collaboratori del “Coenobium” di Enrico Bignami, anche quest’ultimo non indifferente al pensiero dello
scrittore russo. Fra i tolstoiani, spiccava per rigore, lo zoccolaio di
San Colombano al Lambro, Luigi Lué che alle idee di Tolstoi si era
avvicinato nel 1901.
Teresa, con il suo adorato primogenito soldato, di guerra non
voleva sentir parlare. Guardava con angosciata disapprovazione
Battista Mazzoletti, di cultura risorgimentale e lettore assiduo de
“Il Secolo” di Milano, che riteneva almeno l’intervento contro
l’Austria giustificato e necessario, per quanto doloroso.
Rientrato da Frascati, Sante, in marzo, è mandato a Palestrina
dove ritrova Emilio, assegnato alla 16ª Compagnia del IV
battaglione, costituito in sostituzione del III inviato in Libia, e
«però ci troviamo sempre, tutti quelli di Codogno, siamo sempre
insieme». È molto contento: «siamo in bellissimi posti ove si sta
molto bene» e poi «non passo né rivista né istruzione e quello è l’importante». «le fatiche sono un po’ pesanti, ma però anche a
casa ne facevo di più», ma si trova bene e attende ancora d’essere
destinato ai conducenti. Non manderà fotografie: il barbiere del
Reggimento l’ha «pelato come un cane» ed è proprio brutto a
vedersi. A Roma col berretto e un vero fotografo sarà un’altra
cosa. La posta non arriva regolarmente e dalla seconda metà di
febbraio, quando ha lasciato di nuovo Roma per Frascati, non ha
più notizie della famiglia (e nemmeno di Maria cui ha scritto già
due volte) e perciò invia di nuovo il suo indirizzo: «al gran.
Mazzoletti Sante, 1 Regg., 7 Comp., 13 Divisione, 7 Corpo
d’armata». Qualche lira in tasca l’ ha ancora (ha ricevuto il vaglia) e
gli serve solo la carta da lettera che al campo è introvabile; spera,
se tornerà a Roma, di avere per San Rocco, una licenza. In fondo
se l’è guadagnata: «quando mi vedrete direte: “questo è un
granatiere che fece qualche cosa al terremoto”. La medaglia la
daranno, ma non solo la medaglia, anche il premio dal Maggiore
Anfossi comandante del battaglione. Ho sempre lavorato ed anche
a Capistrello feci quello che gli altri non facevano».
A quanto pare, è finalmente riuscito a passare nei “conducenti”, altra vita: «Sapete genitori che i conducenti sono signori;
io non ho più disciplina, non ho più niente altro che debbo
percorrere le vie di Roma un po’ sconcio con i muli per mano.»
Il 29 aprile la famiglia Mazzoletti riceve una lettera di un
commilitone di Sante, Luigi Moroni: Sante è all’ospedale per
un’infezione al piede sinistro, provocata, a suo dire, dagli scarponi
troppo stretti. Non è nulla di grave, ma comunque rimarrà a
Palestrina, mentre il 27 il Reggimento tornerà a Roma: «È venuto il
mio capitano a trovarmi prima di partire; gli rincresceva come
fosse stato mio padre». Ma il giorno 28 Sante scrive dall’infermeria
della caserma Regina Margherita; è già a Roma. E’stato operato, a
Palestrina, e ora spera di tornare presto in Compagnia; l’infezione
era meno grave del previsto (si temeva un flambone).
Quota 188 Sabotino, novembre 1915 - di Angelo Cerizza -
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