La violenta azione contro i forti di Vezzena

La definizione dei nuovi confini itali-austriaci dopo la guerra del 1866 presentava, apparentemente, un certo vantaggio strategico per l'Italia nella zona di Vezzena, se si tiene conto del breve tratto di alcuni chilometri che separavano le postazioni italiane da quelle austriache di Monterovere, dalla cui panoramica balconata si sarebbe potuto dominare, nell'ipotesi di una futura occupazione italiana, tutte le più importanti sistemazioni difensive austriache dell'alta Valsugana per proteggere la piazzaforte di Trento.
L'evidente pericolo costituito da un eventuale sfondamento nel caso di un conflitto con l'Italia, nonché di avanzata di truppe italiane da Vezzena a Monterovere non era stato sottovalutato già negli ultimi anni di pace (molto precaria tra il 1908 e 1913) dallo stratega austriaco mar. Conrad, il quale dopo insistenti richieste era riuscito ad indurre il governo del venerando, e venerato, imperatore Francesco Giuseppe a stanziare cospicui fondi per la costruzione di quella formidabile catena di otto fortezze moderne e robuste da Folgaria a Vezzena: i nomi che apparvero più spesso nei nei bollettini di guerra italiani ed austriaci furono quelli del settore di Vezzena per i violenti, ma vani, tentativi di distruggerli e poi di sfondare le difese trincerate austriache: impresa, che data l'impreparazione dell'esercito italiano, era ben ardua e poi si dimostrò impossibile malgrado gli eroici sacrifici delle truppe italiane. Comunque i nostri battaglioni non potevano certamente starsene in tranquilla contemplazione delle possenti fortezze del Conrad! Perciò il gen. Roberto Brusati, comandante della 1^ armata che occupava le posizioni avanzate dell'altopiano di Lavarone ed anche del settore di Vezzena, aveva emanato l'ordine di attaccare i forti austriaci e i trinceramenti di questo settore in ottemperanza alle direttive che il piano del gen. Cadorna dava alla 1^ armata ossia: l'attacco doveva avere un carattere spiccatamente attivo, basato essenzialmente sullo sviluppo di una preponderante azione di fuoco contro le opere nemiche di Vezzena ed inoltre eseguire offensive parziali per occupare le posizioni di un territorio nemico ovunque ciò fosse possibile, in relazione alle forze disponibili.
In seguito a questi ordini, ebbe inizio la cosidetta guerra dei forti che sottopose a durissima prova la resistenza delle strutture dei forti del Conrad e lo stoico valore delle loro guarnigioni. Il comando italiano del settore di Vezzena ottenne l'assegnazione di circa un centinaio di cannoni e obici fra i quali alcuni di grosso e medio calibro per le postazioni di Porta Manazzo e dell'osteria del Termine (in val d'Assa) nei pressi della quale venne collocato un grosso cannone di marina a lunga gittata. A questo complesso di artiglieria, non tutta moderna, ma comunque abbastanza potente, appoggiato dai lunghi cannoni da 150 mm del forte Verena, l'invulnerabile “dominatore” del settore di Vezzena, venne assegnato il compito di distruggere i potenti forti Verle e Luserna, nonché di decapitare l'acuta Cima Vezzena (m 1908) e far precipitare a pezzi in Valsugana il suo forte-osservatorio, detto lo Spizt.
Già il 24 maggio i cannoni di Porta Manazzo e del forte Campolongo avevano ripetutamente bombardato e colpito il Verle e il Luserna, mentre contemporaneamente gli antiquati mortai del forte Campomolon e le antiquate artiglierie del m. Toraro agivano bombardando i forti austriaci del settore di Folgaria: il Sommo, il Dos del Sommo (o di Serrada) ed il forte Belvedere di Lavarone, detto anche Gschwendt: questi ultimi non furono molto danneggiati.
Il forte Verena invece, quello stesso giorno puntò le sue batterie di cannoni di lunga gittata sul difficile obiettivo dello Spizt che venne più volte colpito ma anche più volte mancato, tanto che molti proiettili lo sfiorarono andando poi ad esplodere in Valsugana fra le sparse case di S. Giuliana (frazione di Levico) che dovette essere rapidamente evacuata onde evitare vittime fra i suoi pochi abitanti, Altri proiettili del Verena andarono ad esplodere presso la stazione di Levico dove, ignorato dagli italiani, c'era un colossale mortaio Skoda da 420 mm in una ben mascherata postazione. Nei giorni successivi al 24 maggio, la violenza del martellamento dei tre forti austriaci di Vezzena assunse una intensità tale per cui le guarnigioni vissero molti giorni particolarmente tragici: lo Spizt di Cima Vezzena venne colpito oltre che dalle granate del Verena, anche dai grossi proiettili da 280 mm del cannone da marina della Val d'Assa, che quando scoppiavano lanciavano in aria migliaia di pietre e schegge d'acciaio e alzavano enormi colonne di fume nero. “Cima Vezzena sembrava un vulcano in eruzione (…) Nessun uomo potrebbe essere lassù ancora vivo, scrive il Weber, il quale dal forte Verle assisteva al terrificante spettacolo.
Poi viene la volta di quest'altro potente forte austriaco più facilmente individuabile dagli osservatori d'artiglieria: centinaia di granate lo colpiscono facendo tremare la sua possente mole di roccia, acciaio e cemento, scavano profondi squarci nella grossa copertura di cemento e travi d'acciaio; si teme perciò che la fine del forte e dei difensori sia imminente. I nervi del comandante della guarnigione Gimpellmann non resistono a quel finimondo ed egli si rifugia nella profonda cantina del forte, cercando di recuperare coraggio libando abbondantemente in onore del dio Bacco!
Passano lunghi giorni pieni di angoscioso timore per la guarnigione del Verle, numerosi sono già i morti, i feriti uralno terrorizzati. Una torretta girevole, divelta dalle esplosioni, ha schiacciato il capo di un artigliere, ognuno attende da un momento all'altro l'arrivo di una granata che infilandosi negli squarci della copertura potrebbe esplodere all'interno del forte provocando uno spaventoso massacro.
Gli artiglieri pensano che converrebbe controbattere le artiglierie italiane ma il Verena sulla sua eccelsa vetta di 2015 m rimaneva irraggiungibile dai corti obici da 105 mm dei forti ed inoltre le batterie italiane di Porta Manazzo e della val d'Assa, sebbene a portata, non erano state individuate neppure dall'osservazione aerea.
Lo stressato comandante Gimpelmann – narra il Weber nel suo libro Tappe della disfatta – aveva richiesto ed ottenuto dal comando di settore di Monterovere di poter abbandonare con la guarnigione il forte Verle, da lui considerato ormai bara per suicidi! Gli aspiranti Fritz Weber, Kopfmacher, il caporalmaggiore Aschenbrenner ed altri 42 artiglieri avevano chiesto ed ottenuto invece di rimanere a difendere il loro forte ormai semidistrutto, e così per altre tre giorni e lunghe notti gli artiglieri rimasti ai loro posti continuarano a sparare sulle postazioni italiane di Vezzena donde era prevedibie avesse inizio l'attacco italiano ai forti. Non passò molto tempo dalla partenza che il gruppo che aveva seguito il capitano Gimpelmann rientrò nella fortezza, non si sa se per un ordine o volontariamente, pronto a condividere l'incerto destino dei coraggiosi compagni rimasti.
La già precaria situazione del Verle si era nel frattempo aggravata: altri due dei tre obici superstiti erano stati posti fuori uso proprio quando non si avevano più dubbi sull'imminenza dell'attacco italiano ai tre forti che, forse visti a distanza, apparivano ridotti in pezzi ed inadatti ad una efficiente difesa. Per quanto riguarda il Verle, nelle sue possibilità di difesa contro gli assalti della fanteria, pur essendo rimasto un solo obice in torretta (dei quattro iniziali), aveva ancora a disposizione una ventina di mitragliatrici, armi micidialissime, come si era constatato nelle sanguinose battaglie del fronte francese e russo nel 1914-1915; inoltre il Verle, come gli altri forti austriaci, era protetto di una fitta selva di paletti di ferro con filo spinato d'acciaio, dove neppure giorni interi di bombardamento dell'artiglieria riuscivano ad aprire dei varchi sufficienti al passaggio dei reparti di primo assalto: il reticolato fu uno dei più efficaci mezzi di difesa passiva che riuscì a fermare durante la prima guerra mondiale anche le più eroiche truppe d'assalto. E le nostre truppe alpine e quelle di fanteria ne fecero per la prima volta una cruenta esperienza quando assalirono i forti austriaci di Vezzena ed il dosso del Basson, il potente putno di appoggio (in tedesco Stutzpunkt) situato tra il Verle e il Luserna.
Appunti di ricerca – Museo Storico italiano della Guerra – Rovereto Rete Trentino Grande Guerra -


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