I recipienti per il vino

Passiamo ora ai contenitori utilizzati per la bevanda senza la quale una cena romana non sarebbe immaginabile: il vino.
Le coppe per bere
Se la varietà dei piatti che comparivano sulle tavole dei Romani era considerevole, ben maggiore era quella delle coppe per bere: si può anzi dire che gli antichi Romani avessero per queste una vera e propria passione. Ne esistevano più di trecento specie diverse, un’infinità, tanto che il lettore ci scuserà se nella presente occasione non li ricorderemo tutti. La coppa più comune era originariamente il poculum (dal quale deriva il moderno termine tedesco ‘Pokal’). Si trattava di un bicchiere per il vino senza piede, fatto originariamente di terracotta o di legno e in epoca successiva di metallo o di vetro; il modello di legno era però utilizzato, così come altre coppe, quali il capis e il simpulum, per bervi il latte di capra. Il poculum, inoltre, veniva usato nei riti funerari, e tale suo impiego rituale spiega come la sua forma sia rimasta a lungo invariata, in conformità al conservatorismo cerimoniale dei Romani. Va poi menzionato lo scyphus, che era invece una specie di scodella o ciotola, talvolta provvista di anse: nel periodo più antico era anch’esso fatto di legno, poi lo si fabbricò con la terracotta e infine con l’argento. Anche lo scyphus aveva delle connessioni con la sfera religiosa: era infatti l’attributo di Ercole, il quale veniva spesso rappresentato con uno scyphus in mano (mentre il cantharus, un grosso calice dal piede elevato di cui parleremo fra poco, era l’attributo di Dioniso). Tuttavia, la coppa più usata per bere nell’età della tarda repubblica e poi nel periodo imperiale era la phiala46 (donde l’italiano ‘fiala’), una coppa piatta senza anse, abbastanza simile alla patera, pur se un po’ più profonda e meno larga di questa, che col tempo venne fabbricata con metalli preziosi. Sulle tavole romane si trovava spesso anche il calix (da cui il nostro ‘calice’), in sostanza un’imitazione della coppa attica: era una coppa piatta, non troppo diversa dalla nostra coppa da champagne, ma spesso fornita di anse. Si sarà notato come le coppe romane, perlomeno quelle usate con maggiore frequenza, fossero accomunate da una scarsa profondità. Questo loro carattere, come si è accennato altrove, comportava diversi vantaggi. In primo luogo, data la quantità relativamente ridotta di liquido che tali coppe potevano contenere, se ne potevano bere molte senza raggiungere l’ebbrezza troppo rapidamente, il che permetteva di godere più a lungo dei piaceri conviviali ma anche sociali del banchetto (oltretutto, come già sappiamo, il vino veniva sempre annacquato abbondantemente, seppure in proporzioni variabili). In secondo luogo, l’ampiezza della superficie delle coppe, che per contro erano poco profonde, favoriva il deposito sul fondo delle impurità presenti nell’acqua e soprattutto nel vino che, nonostante l’opera di filtraggio cui era stato sottoposto, restava sempre alquanto torbido. Ancor oggi l’espressione “bere fino alla feccia” viene utilizzata, a volte in modo metaforico, per indicare che si scola il bicchiere completamente, fino al deposito sgradevole, la feccia, che si formava appunto in fondo alla coppa. Più capace del calix era poi il cantharus che, date le sue maggiori dimensioni, andava sollevato con entrambe le mani che lo reggevano per le due anse, esattamente come il carchesium. Va poi menzionato il ciborium, poi assunto nella liturgia cristiana (il ciborio), che in origine aveva la foggia del baccello di un frutto dell’Egitto. A proposito di forme particolari, vanno senz’altro ricordate le coppe sagomate a guisa di piccole imbarcazioni, come il cymbium e lo scaphium (che traggono il nome appunto da tale loro aspetto). C’era poi la coppa a forma di corno, il rhytium, associato al culto e all’iconografia del Lare – il quale veniva rappresentato mentre lo reggeva con la mano destra sollevata –. Data la sua notevole profondità, esso permetteva di assaporare lentamente il vino, e così di gustarlo pienamente.
Non mancavano, beninteso, le coppe di vetro e di cristallo, che Trimalcione afferma di preferire a quelle fabbricate con metalli preziosi. Al riguardo, vanno menzionate le diatreta, coppe di cristallo con un orlo a forma di ricamo. Particolarmente apprezzati erano poi i vasi murrini, il cui prezzo, come abbiamo già detto, toccava vette di follia pura. Per esempio, Plinio il Vecchio racconta che Nerone avrebbe addirittura speso un milione di sesterzi per comprare una murrhina capis: precisamente la stessa cifra che un altro imperatore piuttosto fuori di testa come Vitellio avrebbe sperperato per procurarsi un piatto prezioso. A quanto pare, per certe coppe come per certi piatti non si badava a spese, e i prezzi degli esemplari più pregiati di entrambe queste categorie si rincorrevano in una folle corsa, con gran gioia degli artigiani che li producevano e ancor più dei commercianti specializzati in questo settore. Apprezzate erano anche le coppe di vetro cesellato di produzione fenicia (è noto come i Fenici avessero una lunga tradizione nella fabbricazione del vetro), oppure provenienti dalla Gallia. E per chi non voleva fermarsi al vetro e al cristallo, c’erano coppe per bere ricavate da abili artigiani entro pietre semipreziose come l’onice e la giada: abbiamo visto, infatti, come Apuleio le ricordi allorché parla della sontuosa sala da pranzo della ricca Birrena. Se i bicchieri e gli altri recipienti per bere sulle tavole dei ricchi presentavano abitualmente decorazioni artistiche e raffinati ceselli, sugli esemplari più comuni si potevano talora trovare delle iscrizioni, specie nelle taverne. Per esempio, un potorium trovato a Colonia invita l’oste a colmarlo di vino puro – evidentemente come assicurazione ai clienti sulla bontà della bevanda servita – con la seguente iscrizione: «Riempimi, oste, di vino pretto». Si è già fatto riferimento alla connessione di queste coppe con la sfera delle pratiche religiose: una connessione che affonda le radici nelle origini stesse della civiltà romana. In effetti, quasi tutti questi recipienti avevano all’inizio un valore rituale; col tempo, peraltro, essi furono investiti da un processo di “secolarizzazione” che li spogliò di gran parte di tali risonanze, e che a volte si manifestò nella forma di una loro consapevole profanazione. In tale quadro, va ricordato come non mancassero imitazioni a sfondo erotico della libagione sacra. Si è visto come i Romani apprezzassero moltissimo il buon vino. Essi, peraltro, utilizzavano la bevanda non soltanto per berla, ma anche per una sorta di gioco nato, a quanto pare, in Sicilia, ma poi diffusosi ad Atene e di lì importato a Roma. Si tratta del cottabo, che consisteva nel gettare vino entro una coppa sistemata a una certa distanza e nel pronunciare non il nome di qualche dio, bensì quello della donna amata.
Se il getto del vino “faceva centro”, ossia cadeva bene all’interno della coppa, la cosa era di buon auspicio per l’amante e significava che egli avrebbe realizzato il suo sogno d’amore. Anche in questa pratica ludica sembra presente un originario riferimento al sacro, pur secolarizzato: la mescolanza di abilità e casualità, quali concause dell’esito del lancio del vino e, quindi, del delinearsi della buona o della cattiva sorte in relazione alle speranze amorose, appare una metafora dell’intersezione della destrezza umana con la Fortuna, l’onnipervasiva Tyche, nel determinare le vicende del mondo. E la scelta del vino come mezzo per decifrare il futuro ben risponde al carattere originariamente sacro della preziosa bevanda, sorta di vincolo tra l’umano e il divino. In proposito, va inoltre ricordato come Romani non bevessero il vino soltanto nei banchetti, come facevano gli antichi Greci per i quali il simposio era l’espressione massima della socialità e, in certa misura, anche del contatto con il mondo degli dèi, e in particolare con il dio della vitalità sfrenata, Dioniso. Meno sensibili alle suggestioni del misticismo, i Romani erano soliti gustare anche nell’intimità della casa o di un podere con qualche amico il frutto di vigneti di pregio. La degustazione del vino diventava in tal modo l’occasione di incontri personali svolti in modo amichevole e informale, delineando una pratica che sarebbe rimasta intatta nel tempo, soprattutto nel mondo mediterraneo, fino a trasformarsi nell’odierno “bicchierino” bevuto in compagnia degli amici al bar.
Anfore, giare e orci per il vino
Il vino veniva versato nei bicchieri dalla lagona, che era una specie di brocca dal collo stretto e dall’orifizio allargato, munito di un’ansa, il cui impiego era tanto diffuso che i mercanti di vino ne mettevano l’effige sulle proprie porte per essere immediatamente identificati. Altre varietà di vasi nei quali si versava il vino da attingere erano indicate con i termini (dei quali gli ultimi due di origine greca) ‘vinarium’, ‘acrotophoron’ ed ‘oenophoron’. A proposito di quest’ultimo, quando un cliente in una taverna o in un luogo di ristoro utilizzava la formula, ricordata da Apuleio, “calida cum oenophoris”49, intendeva chiedere acqua calda (calida) e vino pretto per fare lui stesso la miscela nel proprio calice. Già si è visto come a seconda delle circostanze e anche delle preferenze personali il vino venisse mescolato non solo con l’acqua calda, ma anche con quella fredda. Per attingere l’acqua fresca ci si serviva di un orcio rosso ad anse di terracotta di forma sinuosa chiamato ‘urceus fictilis’, appartenente all’ampia e variegata categoria degli urceoli ministratorii, ossia dei recipienti impiegati per versare acqua calda o fredda. Altri recipienti – l’ampulla e il guttus – grazie alla loro conformazione permettevano di versare il vino goccia a goccia, ed erano quindi usati per i vini più pregiati. Peraltro, l’ampulla potoria, un’ampollina elegantemente sagomata, serviva sia come piccolo vaso per bere, sia anche come prezioso recipiente per conservare i profumi. La sua associazione con profumi squisiti fece sì che le venisse attribuito il nome di Cosmus, un celebre profumiere del tempo. A quanto riferisce Marziale, tra gli elegantoni vigeva l’uso di gustare in ampolle di Cosmo il foliatum, un vino che, come il nardinum, era composto di estratti profumati52, e sigillava in qualche modo una fusione armoniosa tra l’arte enologica e quella cosmetica nel segno di un accordo tra il gusto, l’olfatto e la vista. I Romani più raffinati ed esigenti preferivano fare di persona la miscela del vino e dell’acqua calda o fredda, dolce o di mare: era questa una pratica che richiedeva una certa esperienza e costituiva, potremmo dire, una vera e propria arte. Tutti gli altri preferivano lasciare questo compito a uno schiavo.
La miscela veniva effettuata in un vaso apposito detto ‘cratere’: si trattava di un recipiente di grosse dimensioni dall’ampio orifizio, fatto nei primi tempi di terracotta e che continuò a essere fabbricato con tale materiale per i Romani poco abbienti53. Il cratere era generalmente munito di un piede e collocato a terra; in alcuni casi, però, terminava a punta, e allora veniva disposto su di un supporto. La miscela di acqua e di vino vi veniva effettuata conformemente alle istruzioni del padrone di casa e nella seconda parte di un banchetto era curata dal re o presidente del banchetto. Era quest’ultimo, per esempio, a raccomandare allo schiavo addetto di annacquare sempre più il vino con il procedere della notte, affinché i convitati non diventassero eccessivamente ubriachi. La preparazione di un nuovo cratere costituiva ogni volta l’occasione di rinnovate e liete libagioni.
Va tenuto presente che, come già accennato a suo tempo, i convitati non erano liberi di bere più o meno vino, come avviene oggi, e tanto meno di rifiutarsi di bere in quanto astemi: tutti dovevano bere lo stesso numero di coppe, in ottemperanza a un principio che potremmo chiamare della “solidarietà simposiaca”, sicché il loro grado di ebbrezza (fatte salve le differenze delle reazioni individuali alla medesima quantità di alcol ingerito) era approssimativamente lo stesso a ogni stadio, e poteva essere in certo modo “quantificato” in base al numero dei crateri che erano stati svuotati. Esistevano anche dei crateri speciali, utilizzati in circostanze rituali e d’apparato: un esemplare di questa categoria è costituito dall’enorme cratere trovato a Vix in Francia. Per riempire le coppe, i servitori si servivano a volte di una specie di mestolo dal lungo manico, del genere del simpulum – una sorta di grande cucchiaio con un lungo manico, utilizzato soprattutto in occasione dei sacrifici per attingere dal cratere il vino con cui compiere le libagioni sacre – o del cyathus – dall’impiego più “profano”54. Ovviamente questi recipienti utilizzati per versare e attingere il vino erano fatti di metallo, in quanto la terracotta sarebbe stata inadatta alla produzione di un manico lungo. Come vedremo, il cyathus era anche impiegato in cucina nella preparazione dei piatti: il suo uso era anzi così esteso che si giunse a utilizzarlo come unità di misura per il dosaggio degli ingredienti nelle ricette55. I Romani filtravano sempre il vino, data la quantità (ai nostri occhi massiccia) di impurità che esso conteneva: ci sono pervenuti dei filtri di bronzo dotati di un coperchio che serviva da colino, risalenti già al V secolo a.C. Per raffreddare il vino, Marziale menziona due tipi di attrezzi: il colino a neve (colum nivarium) e il sacco a neve (saccus nivarius) 56. Abbiamo già visto che in età imperiale si affermò la moda di mescolare il vino con la neve; al riguardo, anzi, lo stesso Marziale afferma che l’impiego per la miscela dell’apposito fiasco di acqua di neve (lagona nivaria) era preferibile a quello dell’acqua bollita e raffreddata per certi vini di qualità non esaltante57. Il vino veniva recato in sala da pranzo in anfore chiuse con tappi di sughero o d’argilla mediante sigilli e recanti una specie di etichetta, chiamata ‘pittacium’, in cui era trascritta la data di produzione del vino, indicata con il nome dei consoli che erano in carica nell’anno in cui il vino era stato versato nell’anfora58. Il vino ordinario veniva spesso messo in anfore che avessero contenuto del vino di Grecia, nella speranza che esso così si impregnasse del gusto e del profumo del suo nobile cugino ellenico. Va poi menzionato il dolium, che era una specie di grande botte, fatta dapprima d’argilla, poi di legno. In epoca successiva vennero fabbricate anche delle botticelle di vetro, sagomate come dei piccoli dolia, in cui si conservavano dei vini speciali, di qualità profumata, che venivano utilizzati come liquori. Infine, ricordiamo che, come già accennato, nella Roma antica la birra era praticamente sconosciuta nell’Urbe, ma già nota – e apprezzata – in Gallia e nell’Europa centrale. Per essa si usavano dei contenitori di terracotta: al riguardo, merita una menzione una bottiglia di terracotta trovata a Parigi (l’antica Lutetia) la quale reca l’iscrizione: «Ospite, riempi la bottiglia di birra».
La cultura culinaria e l'arte gastronomica dei romani antichi – AUSER Spinea Anno Accademico 2020-21 -

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