Il vino nella Roma antica

Nei primi tempi, il vino proveniva dai vigneti situati presso le zone paludose e dai colli del Lazio. Le vigne erano basse fin quasi a terra, non avevano sostegni e producevano un vino scadente. A testimoniare il ruolo ancora non centrale del vino nella vita dei Romani, era il fatto che le prime libagioni di Romolo, in forma di offerte sacrificali di sostanze liquide, furono compiute con il latte e non con il vino. Solo in seguito il vino fu usato nei riti con sacrifici: in tal caso, esso non doveva essere stato prodotto da acini pigiati da piedi recanti ferite, né da viti non potate, colpite da fulmini o nei cui pressi fosse avvenuta un’impiccagione. Tutto questo era sacrilego.
In origine, alle donne era vietato bere il vino e accedere alla cantina. Per questo, il marito poteva esercitare lo ius osculi, cioè il diritto di bacio, pratica in uso nelle famiglie più illustri, per controllare che l’alito della moglie non odorasse di vino. Roma, nella coltivazione delle viti, subì l’influenza degli Etruschi e dei Greci. Gli Etruschi coltivavano la vite già prima dell’arrivo dei Greci e, grazie alla domesticazione delle viti selvatiche tramite supporti lignei, ottenevano vini di migliore qualità. Nel periodo della colonizzazione greca, tra i secoli VIII e VI a.C., si ebbe la diffusione del culto di Dioniso, dio protettore della viticoltura, che dagli Etruschi passò ai Romani con il nome di Bacco. Questi due popoli contribuirono a creare una diversificazione delle piante e dei vitigni, con ripercussioni che si avvertono ancora oggi: alcuni vitigni sono ritenuti i diretti discendenti di quelli dell’antica Roma.
L’Italia, in epoca romana, aveva una supremazia così grande nella viticoltura che, con questa sola risorsa, si arricchiva più di quei paesi esportatori di costosissimi profumi. Plinio censì ottanta qualità di vino, di cui due terzi prodotte in Italia. Nella prima metà del II sec. a.C., scrisse Catone nel De Agricoltura, il vigneto è ormai la coltura più diffusa. La sua gestione non è più familiare, ma altamente professionale: i vigneti sono aziende agricole efficienti e ben strutturate, che dispongono mediamente di un territorio coltivabile di 200 ettari e di molti schiavi organizzati in maniera quasi militare, costretti a lavorare all’interno di un preciso e sistematico processo produttivo.
Il vino si impose come la bevanda più importante sulle tavole di ogni cittadino romano, che a volte alzava troppo il gomito. Plinio definì il vino: «Un prodotto destinato a far perdere all’uomo la ragione rendendolo furioso, causa di mille delitti, così allettante che tanta gente non conosce alcun altro valore nella vita (…)».
Gli eccessi non erano rari e se ne incentivava il consumo: stimolando artificialmente la sete, mangiando cibi salati; organizzando gare con premi assegnati a chi beveva di più; ingerendo la velenosa cicuta, di cui il vino era considerato l’antidoto. Alcuni, ormai preda dell’alcol, non controllavano più le parole: c’era chi faceva testamento davanti a testimoni e c’era chi invitava a cena ospiti non desiderati. Al mattino, ci si svegliava con la bocca impastata e l’alito pesante, cui si poteva rimediare masticando delle pastiglie profumate.
Ma non erano soltanto gli uomini a bere; il vino mischiato con l’acqua veniva fatto bere come corroborante perfino ad alcune bestie da soma, come buoi surriscaldati e cavalli magri.
I Romani non bevevano mai vino puro, e chi lo faceva era considerato un ubriacone; esso veniva allungato con l’acqua, consentendo di berne in grande quantità. Si ricavava il vino anche da fichi, datteri, carrube, pere, mele, corniole, mirto, nespole, sorbe, more secche, pinoli.
Molto spesso veniva aromatizzato con le numerose spezie e altri prodotti disponibili sul mercato: mirra, nardo, calamo, cannella, cinnamomo, zafferano, palma, asaro, alloro, miele, datteri, pepe, chiodi di garofano, zenzero, ambra, resina, muschio, susina. Molto usato era anche il finocchio, e lo fu anche con il passare dei secoli: in epoca moderna, verrà utilizzato per mascherare il sapore del vino andato a male. Da questa abitudine nasce la parola infinocchiareTratto dal libro: Passioni e divertimenti nella Roma Antica
Fonti storiche:
Plinio il Vecchio, Naturalis historia, libro XIV, 13.
Plinio il Vecchio, Naturalis historia, libro XIV, 23.
Plinio il Vecchio, Naturalis historia, libro XIV, 13.
Plinio il Vecchio, Naturalis historia, libro XIV, 2.
Plinio il Vecchio, Naturalis historia, 13.
Plinio il Vecchio, Naturalis historia, libro XIV,28.
Marziale Epigrammi, libro I, 27.
Marziale Epigrammi, libro I, 87.
Columella, De re rustica, II, 3,2

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