Nel cuore di Roma, sotto il cielo plumbeo che pareva annunciare il lutto degli dèi stessi, si svolse il funerale di Gaio Giulio Cesare, l'uomo che aveva osato sfidare la Repubblica. Le strade ribollivano di cittadini, patrizi e plebei, tutti convocati, consci o meno, all’alba di una nuova era. Fu allora che Marco Antonio, console e leale luogotenente del defunto dittatore, si levò a parlare. Con arte sopraffina e calcolata passione, egli iniziò il suo discorso in apparenza conciliatore: con voce grave, lodò la nobiltà d'intenti dei congiurati, coloro che, spinti — così disse — dall’amore per la libertà, avevano insanguinato il Senato. Le sue parole, però, celavano lame affilate. Con magistrale astuzia, Antonio passò poi a rievocare le imprese di Cesare: i suoi trionfi sui campi di battaglia, la clemenza verso i nemici vinti, la generosità verso il popolo. Ogni frase un colpo, ogni pausa un'esca per il tumulto che cresceva nei cuori degli astanti. Infine, come ultimo atto, c...