Val Doblar, agosto 1917

Si parte. Stavolta, ragazzi, tocca a noi.
Lasciamo gli zaini a Kambresco e scendiamo nella valle Doblar.
Nella stretta gola che chiamasi Valle Doblar, incontriamo un incessante pellegrinaggio di feriti.
Chi è ferito alla testa, chi adagiato su una barella ha il ventre squarciato o le gambe troncate, chi è colpito in tutto il corpo. Chi urla disperato per gli spasimi prodotti dalle orrende mutilazioni, chi ha gli occhi coperti dal velo della morte e rantola i suoi ultimi guizzi di vita, chi invece ha ancora la forza di non disperare e sorride, così tranquillo, alla sorte. E feriti ad ogni passo, adagiati supini sopra un poco d'erba ai margini della strada.
Lunghe file di camion ci obbligano a sostare ore ed ore sulla strada polverosa; la loro corsa alza una nube fitta di polvere bianca che mandiamo, aspirandola, direttamente ai polmoni e che sentiamo pure scricchiolare sotto i denti. Il puzzo ed il fumo della benzina che arde nei motori delle macchine in marcia, uniti ai nugoli di polvere densa che c'è per l'aria, quasi ci soffocano.
Più ci avviciniamo all'Isonzo, più s'ingrossa la colonna dei feriti; maggiormente si assommano gli abbandonati agli orli della strada; gente che non ha più vita, che ormai nulla ha più da fare, perché tutto ha dato. Cessata la grande offensiva testé iniziata ci sarà chi si occuperà di loro, chi comporrà quelle sacre spoglie, ne tenterà il riconoscimento, ed infine potrà darle onorata sepoltura. Non è incoraggiante davvero questa marcia forzata fra fitte ali di morti e di feriti. A tale vista il nostro pensiero ci mormora continuamente: "domani anche tu sarai come uno di loro".
Dal diario di Agostino Tambuscio, militare, 275° reggimento fanteria, brigata Belluno, soldato

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