LA GUERRA IN MONTAGNA: esempio dolomitico

Prima della grande guerra, si sentiva spesso ripetere che, in qualunque eventualità, le Alpi sarebbero state il teatro delle prime operazioni. Oggi, che i confini politici dello stato raggiungono la Vetta d'Italia, ciò che si prevedeva non è certamente più discutibile. Infatti, la fascia montana compresa nel territorio nazionale si allargò così tanto - soprattutto verso nord/est - da far si che in caso di guerra, non solo si sarebbe dovuto iniziare a combattere sui monti, ma si sarebbe dovuto continuare a combattere per i monti e tra i monti. Con la Prima Guerra Mondiale, in Europa, si videro gli eserciti fronteggiarsi, muoversi, combattere su un fronte di 9700 km. di montagne. Si videro truppe vivere e trascorrere inverni a 3 - 4000 metri, con le neve alta fino a 8 - 10 metri e temperature che raggiungevano i 40 gradi sotto lo zero. Le si vide arrampicarsi con corde, scale, chiodi su ghiacci e su pareti. Furono inverni in cui la neve stabile era già presente a settembre e lo era ancora ad aprile. Proprio nel mese di aprile del 1916, nei giorni della conquista italiana del Passo della Sentinella, (Regione Popera /Dolomiti di Sesto) furono misurati 11 metri di neve sul versante austriaco e 9 su quello italiano. Era il venerdì precedente la Pasqua e venne soprannominato il "Venerdì Bianco": 10.000 vite spezzate in soli tre giorni a causa delle slavine. In montagna, quindi, la particolarità del terreno, il clima, le temperature e i fenomeni atmosferici limitarono molto le operazioni militari: le difficoltà che normalmente una guerra porta in pianura, in montagna si presentarono decuplicate. Il concetto stesso di azione era composto dall'insieme di tanti elementi coi quali bisognava fare i conti prima di poter concretare il disegno delle operazioni che si intendeva sviluppare. Inoltre, almeno per quanto riguarda l'Italia (ma spesso anche i nostri avversari), la guerra veniva decisa a tavolino, sulla carta, da generali che a
partire da Luigi Cadorna - non conoscevano l'ambiente alpino e ad esso dedicavano soltanto frammenti del loro preziosissimo tempo per lo più impegnato nelle grandi offensive delle pianure. L'Austria fu la nazione che - più di ogni altra - seppe intravedere la necessità di una preparazione alla guerra in alta montagna. Inoltre, intuendo la guerra contro l'Italia, tutta l'istruzione e l'addestramento delle truppe di confine fu rivolta a migliorare e moltiplicare le forze dislocate su di esso. La punta di diamante delle truppe da montagna austriache era rappresentata dalle "Hochgebirgskompanie" (Compagnie d'Alta Montagna) più o meno corrispondente ai nostri Alpini, particolarmente addestrate e quasi tutte composte da validi alpinisti, guide alpine o comunque soldati particolarmente predisposti a muoversi e a combattere su un terreno così impervio e difficile. Di particolare fu che - il 20 maggio 1915 - per sopperire alla mancanza di truppe, l'Austria creò le cosiddette "Pattuglie Volanti", pattuglie formate anche da uomini attempati (anche cinquantenni), ma di grande esperienza alpinistica. Erano infatti quasi tutte guide alpine. La più famosa di queste pattuglie fu sicuramente quella guidata dalla grande guida tirolese Sepp Innerkofler che morì - il 4 luglio 1915 - durante una ormai celeberrima azione di guerra volta alla occupazione del Monte Paterno, in “Zona di Guerra” delle Tre Cime di Lavaredo. Certo è, che una regione montana come il Cadore che limitava il confine di Stato, era un ottimo elemento di offesa e difesa, specialmente nelle fasi iniziali di una guerra come fu il Primo Conflitto Mondiale in cui l'Italia dichiarò guerra all'Austria proprio per allargarsi ai limiti confinari ed annettersi quelle terre che - dal punto di vista geografico - avrebbero completato la sua fisionomia.
Le linee confinarie montane, inoltre, costituivano ottime linee di arroccamento e si prestavano a spostamenti di truppe anche in posizioni che fossero fuori dalla vista degli osservatori nemici. Prima dello scoppio della Grande Guerra, i confini dell'Austria erano così disposti: a nord vi era il saliente Tridentino con il quale l'Aquila Asburgica minacciava il cuore della Lombardia; ad est vi era il saliente Veneto/ Pianura Friulana che le permetteva di tenersi aperta una porta di circa 60km. con cui poter agevolmente riprendersi ciò che i precedenti trattati le avevano tolto. E qui vorrei aprire una breve parentesi. Nel 1866, la Commissione Italo/ Austriaca per i confini aveva quasi dovunque favorito l'Austria, ma non in alcuni punti particolarmente importanti del futuro fronte dolomitico, come ad esempio sul Monte Piana, dove aveva ripristinato la vecchia linea di confine stabilita nel 1753 fra la Serenissima Repubblica di Venezia e la Contea del Tirolo. Qui, quasi tutto il vasto altopiano risultò essere italiano, venendo a costituire una specie di minaccioso cuneo puntato verso Dobbiaco. In caso di ostilità, tale "cuneo" avrebbe consentito agli Italiani di sfondare verso la Val Pusteria senza incontrare alcun ostacolo.. A tale minaccia, gli Austriaci avevano rimediato - già dalla fine del 1800 - con costruzione delle cosiddette "Chiuse Tirolesi", ovvero di forti. "Chiusa" è una parola che deriva dal tedesco "sperren" che significa chiudere, sbarrare. Infatti tali opere erano un tipico esempio di come una singola costruzione permettesse di tenere sotto controllo e quindi di "chiudere", ovverosia sbarrare una strada o una intera vallata.
Allo scoppio delle ostilità, tuttavia, tali costruzioni - mai ammodernate - non risultarono più adatte alle esigenze belliche del momento e perciò, completamente disarmate. I loro pezzi - di vario calibro - vennero spostati in posizioni più consone alle necessità di tiro. Gli Austriaci, però, utilizzarono i forti come deterrente psicologico per le nostre truppe: di notte si illuminavano e sputavano fumo dalle lunghe ciminiere. Intorno si manteneva un buon movimento di uomini e mezzi. Insomma, allo scoppio della guerra, gli Italiani sopravvalutarono gli avversari grazie anche a questi stratagemmi e a tali "specchietti per le allodole". Ma ritorniamo alla questione precedente. Al nuovo confine non sicuramente gradito dall'Austria fu dato l'aggettivo di "iniquo" e aveva un andamento paragonabile ad una grande "S" coricata le cui curvature erano appunto rappresentate dal saliente Tridentino e dal saliente Carnico. L'ultimo tratto di questa lunga "cintura" era rappresentato - in direzione sud/est - dalla conca di Cortina d'Ampezzo e racchiudeva la Val Cordevole, la Val Costeana (sbarrata dalle opere della Val Parola) e la Val Bòite (sbarrata dalle opere del Son Pòuses). La sera del 23 Maggio 1915 l'esercito italiano era pronto, forte di 35 Divisioni di Fanteria, raggruppato in 4 Armate e una Riserva che comprendevano Alpini (compresi gli sciatori), Bersaglieri (compresi i ciclisti), alcune Divisioni di Cavalleria, Divisioni di Artiglieria pesante da montagna e someggiata, fanterie delle varie armi. Gli Austriaci, fin dai primi giorni del Maggio 1915, aveva affidato il comando delle proprie truppe all'Arciduca Eugenio: contro la fedifraga Italia, la Monarchia inviava un principe di Casa Regnante per dimostrare alle popolazioni dell'Impero tutta l'importanza che bisognava dare alla lotta contro l'ex alleata. Le forze austriache vennero divise in tre armate: Armata del Tirolo, Armata della Carnia, Armata dell' Isonzo. Inoltre presero parte alla guerra confinaria anche contingenti dell'Alpenkorps Germanico.
In Ampezzo, poi, il 16 maggio, si chiamarono ad una sommaria visita militare tutti i non ancora arruolati dai 16 ai 50 anni, inquadrati negli Standschützen, tiratori scelti, o nei Landstürmer, cioè nella Milizia Territoriale. A tutti venne consegnata la divisa con l'Aquila Tirolese. Per quanto riguarda il Landsturm, c'è una curiosità: fra le sue fila militò Viktoria Savs, l'unica donna/ soldato della Prima Guerra Mondiale. Ragazza del '99, orfana di madre, seguì il padre al fronte con uno speciale permesso dell'Arciduca Eugenio d'Asburgo e venne arruolata nel Btg. di Fanteria "Innsbruck II°" del reggimento citato. Solo pochi alti ufficiale sapevano che il soldato Viktor era una ragazza. Nell'aprile del 1917, mentre infuriavano i terribili combattimenti del Sasso di Sesto (Zona di guerra "Tre Cime"), e mentre Viktoria scortava un manipolo di prigionieri italiani in fondo alla Val Campodidentro, sede del Comando Austriaco di Zona, lo scoppio di una granata fece rotoalre un macigno che le maciullò una gamba. Solo al momento tragico dell'amputazione si seppe la verità: il soldato Viktor era una donna. Viktoria - pluridecorata - è morta nel 1979 ed è stata sepolta con tutti gli onori solitamente tributati agli eroi militari di sesso opposto. Ritorniamo ai prodromi della guerra. Il fronte si snoda a nord di Cortina: alle armi sono stati chiamati 669 ampezzani, mandati a difendere il fronte tirolese. Ma la guerra decisa sulla carta, a tavolino, da superbi generali nelle loro eleganti divise, avrebbe assunto ben altro aspetto a contatto con l'ambiente montano che aveva a sua disposizione armi terribili: il freddo, la neve, levalanghe, i congelamenti, malattie semplici, ma che lassù - a 3000 metri - conducevano quasi sempre alla morte. E poi, il dramma umano di due popolazioni che per secoli avevano vissuto in pace sotto l'egida dell'Aquila Asburgica e che - da un giorno all'altro - videro le loro famiglie divise, amici e parenti costretti ad indossare una divisa che non sentivano loro e che videro i proprio campi ed i pascoli trasformati in cimiteri per fare spazio a chi - dalla montagna - tornava solo dopo morto. Immaginate la sofferenza di dover combattere una guerra così vicina a casa e di vedere dall'alto delle cime i focolari privati del padre, del giovane sposo, del figlio; una guerra che segnò profondamente i nostri monti, ma anche e soprattutto il cuore di chi la combatté. La guerra che l'Italia iniziò contro l'Austria fu naturalmente una guerra offensiva che richiese subito - dunque - disponibilità di mezzi, prontezza di decisioni, direttive precise ed aggressività negli attaccanti ed ovviamente - data la delicatezza della situazione internazionale - la necessità di agire di sorpresa prima che l'Austria attaccasse.
Perciò, ancora durante il periodo in cui l'Italia si era dichiarata neutrale, il Capo di Stato Maggiore italiano, lentamente, per non dare nell'occhio, fece gradualmente avvicinare ed ammassare alla vecchia frontiera orientale (e qui entra in gioco il Cadore), una forte massa di truppe di copertura, capace di fermare il nemico qualora avesse tentato di invadere il nostro territorio. L'elemento sorpresa però, ben presto cadde: infatti ai primi di Maggio del 1915, la pubblicazione del "Patto di Londra", diffusa dalla stampa internazionale ad opera dei nostri nuovi alleati, mise subito in guardia l'Austria che venne così a conoscere la sicura volontà dell'Italia di entrare in guerra contro di lei. Il 23 maggio 1915, alle ore 7 di sera, all'Imperial Regio Ufficio Postale di Landro venne consegnato - nelle mani di Giovanni Baur, Maestro di Posta - il dispaccio che l'Italia aveva dichiarato guerra all'Austria. Lo scadere dell'ultimatum era fissato per le ore 9 del mattino successivo. Dunque l'apertura delle ostilità, il 24 Maggio 1915, costituì per l'Italia la fedele osservanza di un impegno preso con gli alleati, ma fu l'Austria - antica alleata e padrona - a far fuoco per prima non rispettando neppure lo scadere dell'ultimatum: lo fece con due colpi di cannone che partirono dall'armatissimo Monte Rudo (nei pressi del famosissimo Monte Piana) in direzione di Forcella Lavaredo (vicino alle Tre Cime) e che falciarono due nostri Alpini, prime vittime dell'immane tragedia che si stava per consumare. La vasta e profonda orma che, in 29 mesi di lotta, la guerra ha lasciato in tutto il Cadore, rende molto difficile, se non impossibile fare una sintesi degli avvenimenti militari svoltisi in tutta le regione dal Maggio 1915 fino all'Ottobre 1917.
L'estensione del teatro delle operazioni, le peculiari condizioni fisiche del terreno, la natura delle linee di difesa apprestate dal nemico, la molteplicità degli ostacoli da superare, la scarsità di mezzi disponibili, che non permisero di iniziare subito una guerra vigorosamente offensiva, fecero si che non si trattasse di sicuro di una "guerra lampo" come all'inizio era stato previsto. L'Italia fu costretta a rinunciare ad una rapida marcia sulla Val Pusteria e la lotta si sminuzzò in una serie di avvenimenti tattici sanguinosi: l'esercito italiano si dissanguò per conservare le posizioni che, lentamente e penosamente, poté conquistare. La guerra in Cadore fu tutta guerra di montagna durante la quale la figura morale del nostro soldato, di tutte le armi e di tutti i corpi, si manifestò in tutta la sua straordinaria semplicità e generosità. È ovvio che su di tutti prevalse lo spirito alpino che ebbe sempre la dedizione dei forti, sempre pronto all'aiuto, anche con il sacrificio della propria vita. Accanto agli Alpini trovarono ampio spazio i Fanti, provenienti da tutte le regioni d'Italia, spesso senza particolari attitudini alla montagna. Inseparabili compagni dell'Alpino e del Fante, specialmente in alta montagna, furono l'Artigliere e lo specialista del Genio. Le direttive emanate nell'Aprile 1915 dal Capo di Stato Maggiore dell'Esercito stabilivano che durante il periodo della mobilitazione:"…la Quarta Armata doveva iniziare l'espugnazione dei forti di Sesto, Landro e Val Parola, dando all'azione spiccato carattere di vigore. Il primo obiettivo doveva essere quello di impadronirsi del nodo di Toblach e dei colli circostanti il nodo montuoso del Sella…". Ma, quando il 22 Maggio 1915, il Comando Supremo ordinò all'Armata del Cadore di impadronirsi al più presto delle posizioni oltre confine ritenute utili allo sviluppo dell'offensiva programmata, essa - per le motivazioni citate prima - fu in grado di occupare soltanto i Passi di Valles e di San Pellegrino, e nella giornata del 26 impegnare col nemico un duello di artiglieria nelle vicinanze di Cortina d'Ampezzo. La bella cittadina austriaca subì l'invasione italiana a partire dal pomeriggio del 28 maggio, occupazione che si spinse a nord fino al Passo Tre Croci. Gli Italiani, timorosi di trovarsi di fronte ad une esercito eccessivo per le proprie forze, esitarono ad occuparla e forse, questa esitazione, fu la causa del protrarsi del conflitto che finirà solo tre anni più tardi. A questo proposito va ricordato che - sebbene l'esercito avversario fosse costituito da truppe ben addestrate - l'Austria era già coinvolta nel conflitto mondiale dall'anno precedente, dal 1914, e perciò molte delle sue forze erano impegnate sul più vasto fronte europeo. Sebbene le artiglierie d'assedio non fossero ancora giunte, il 1° Giugno fu ordinata l'avanzata generale per raggiungere la linea da cui poi sarebbe iniziato l'investimento. Il mattino del 5 Giugno, le nostre truppe raggiunsero la linea d'investimento con qualche scontro di scarsa importanza al Col dei Bois ed al Passo Falzarego. Parte della Riserva d'Armata venne fatta avvicinare all'Averau ed alla Tofana di Ròzes per farla operare in Val Travenánzes in collegamento con le truppe destinate a puntare contro le posizioni del Son Pòuses. Tutte queste posizioni erano fortemente e saldamente tenute dagli Austriaci unitamente alla roccaforte del Sass de Stria. Infine, con l'occupazione di Monte Piana gli Austriaci completarono il loro posizionamento sullo "sbarramento di Landro" e di Prato Piazza e fino all'Ottobre 1917 ogni sforzo per ricacciarli indietro fu vano malgrado gli ingenti sacrifici di sangue e di mezzi.
Per coprire lo "sbarramento di Sesto", gli Austriaci si affrettarono ad occupare Cima Vanscuro ed il Monte Peralba, minacciando la Val Pàdola. Anche sulle creste di confine, gli avversari si rafforzarono e perciò, da ora in poi, le truppe italiane dovettero affaticarsi non poco per conservare le posizioni occupate con notevoli sacrifici. Nella prima settimana di luglio raggiunsero il fronte le artiglierie pesanti e venne decisa la ripresa delle operazioni. Nel frattempo era giunto anche il Gen. Antonio Cantore che assunse il comando della Seconda Divisione che comprendeva la zona Monte Piana - Son Pòuses - Tofane. Il Gen. Cantore aveva un passato che ben poteva giustificare le chiacchiere che correvano sul suo conto. Gli Alpini non "lo vedevano troppo di buon occhio" forse perché "non aveva cominciato come uno di loro" cioè non aveva un passato da Alpino. Ligure, di Sanpierdarena, dove era nato nell'anno "dei Mille", invece di diventare marinaio si fece alpino. Legno duro, si disse, fin troppo duro, come quello che serviva per costruire gli alberi delle navi. Ma era anche l'uomo che - in un momento tragico - diceva al sottotenente che gli stava vicino: "…non si affacci, lasci guardare a me che sono vecchio…". "…I miei Alpini…", diceva, e il suo viso severo si illuminava di un sorriso. Ma non era sempre bonaccia e il suo carattere estroso e lunatico a volte lo metteva in cattiva luce con la truppa.
In tutta la sua persona, non aitante, non seducente si avvertiva uno straordinario vigore ed una inesauribile energia. Stare vicino a lui, dicevano, era come stare vicino ad una catapulta all'ultimo scatto. Imperioso, sovente ironico nella parlata non forbita, non sempre casta, ma efficace, scultorea, sferzante. Sotto la corteccia a rilievi sensibili, scrive Renzo Boccardi, si indovinava un forte centro di cerebralità esuberante che, necessariamente, per le umili esplicazioni che gli erano concesse in pace, si espandeva in un forsennato dinamismo fisico ed intellettuale. Sotto la fronte, incisa da rughe profonde, occultata fra la visiera e gli occhiali che la blindavano di uno schermo cupo, si intuiva il formidabile ribollimento di una mente ridondante, fecondata da una lunga e severa vigilia di esperienza e di studio. Arrivato al "Settore Tofana", per prima cosa creò una nuova unità alpina, il che - fatto da Cantore - voleva dire un'opera immensa. La vita che imponeva ai suoi uomini era estremamente dura. Levatacce più con le stelle che con il sole. Marce interminabili con gli "Alt" misurati al contagocce. Arrampicate che ogni volta diventavano un record. I "battifiacca" diventavano suoi nemici personali. …"… un giorno l'odiarono perché avevano cominciato ad amarlo, perché pareva avesse ingiustamente punito un soldato e perché il giorno successivo rischiò la vita per salvarne un altro…"… Si diceva ormai: "Se ghe xè Cantore, i mucch'i far fagoto!". Per di più, Cantore non sapeva e non voleva sentire parlare di guerra di posizione. Voleva ed esigeva movimento. Egli vagava per tutto il fronte montano, voleva vedere tutto, conoscere tutto. Per lui tutto era essenziale, anche il dettaglio più modesto. Cantore, dunque, avrebbe sicuramente potuto portare un contributo apprezzabile nello studio e nella risoluzione di tanti problemi che la guerra alpina portava con sé.
Grande mistero è quello della sua morte, mistero che ancora non ha trovato soluzione come alla fine non ha trovato soluzione il dilemma se questo personaggio fosse veramente amato o odiato. Inoltre, anche dal punto di vista militare, il generale non era - o forse non ebbe il tempo di dimostrarlo - l'uomo delle attese e le sue operazioni furono sempre segnate da grandi perdite e spargimenti di sangue. Non sta comunque a noi dare un giudizio, anche perché ciò che accadde al fronte è e sarà noto solo a chi visse in prima persona la tragedia della guerra. La guerra si allargò: cruenti gli scontri del Monte Piana, del Cristallo, delle Tofane; sanguinosi ed atroci gli scoppi delle mine del Lagazuoi e del Castelletto; violenti i bombardamenti dei paesi di Dobbiaco, San Candido, Moso, Sesto, Prato della Drava; gravissime le perdite per entrambi gli eserciti sulle Dolomiti di Sesto dovute alle incredibili slavine provocate dai molteplici metri di neve che caratterizzarono gli inverni del 1916 e del 1917. Entrambi gli eserciti vissero una guerra estenuante anche dal punto di vista psicologico arroccati su posizioni che nel corso del conflitto non cambiarono di molto e l'ostinazione a non cedere spesso fu incoraggiata dall'erronea credenza di vincere la resistenza con la pertinacia. Si facevano continuamente piani per scacciare gli avversari da una data posizione e la necessità di agire diventava ossessione per i comandanti: un incubo incessante gravava sui loro animi e tale situazione si ripercuoteva sulle truppe. A turbare maggiormente gli spiriti, concorreva talvolta la vanapromessa che dopo quella certa azione i reparti sarebbero stati inviati a godere un periodo di meritato riposo; ma quando le operazioni si susseguivano con crescendo esasperante, il mancato mantenimento della promessa indispettiva e demoralizzava profondamente gli animi. A tutto ciò concorse il fatto che gli inverni del 1915 e del 1916 furono, come già si è detto, gli inverni più terribili degli ultimi 90 anni con temperature che scesero abbondantemente oltre i 40°c sotto lo zero. Fra alterne vicende di attesa e di combattimenti, si giunse al 1917. Neppure immaginabili erano le condizioni degli uomini al fronte: la fame, il gelo, le valanghe, l'umidità, i pidocchi, la dissenteria, i trasporti, le "corvèes". Non parliamo poi dei feriti, spesso lontani dai posti di medicazione, talvolta abbandonati al loro destino per l'impossibilità di raggiungerli o perché non vistiMolti i casi di pazzia fra i soldati più deboli, soprattutto dopo i combattimenti corpo a corpo o dopo un martellante attacco d'artiglieria. Fu in tale occasioni che venne coniato il termine "scemo di guerra"… Ormai era solo sofferenza: non vi erano più combattimenti di rilievo ad eccezione delle mine. I fronti, stabilizzati, indussero infatti i Comandi a progredire in questo particolare tipo di guerra: far brillare grosse mine collocate in profonde gallerie. Furono appunto di quest'annata di guerra le famose mine del Lagazuoi. Si arrivò così al drammatico momento della ritirata di Caporetto: era il 24 ottobre 1917. Il 5 Ottobre, l'ultimo reparto aveva lasciato Cortina d'Ampezzo e nello stesso giorno gli Austriaci vi rientrarono accolti con entusiasmo perché con loro stavano per ritornare a casa i padri, i figli, i mariti, i fratelli. Gli immani sacrifici compiuti sulle montagne avevano sempre di più il sapore di una farsa, tanto più che per molte delle popolazioni delle nostre vallate il significato di questa guerra era rimasto oscuro, una guerra che aveva diviso con una trincea popoli legati da vincoli di cultura e di fratellanza. La nostra armata che si era prodigata per circa 30 mesi in sacrifici considerevoli, dovette ripiegare sul Grappa dove arrestò i nemici a Dicembre. Come tutti sappiamo, seguirono le battaglie sul Piave e di Vittorio Veneto e, nell'Ottobre 1918, gli Austriaci vennero definitivamente ricacciati oltre il confine della Patria. Il 4 Novembre 1918 la guerra finì con la firma dell'armistizio di Villa Giusti. Purtroppo, i paesi confinari di Dobbiaco, San Candido, Moso, Sesto e Prato della Drava subirono ancora per quasi due anni gli strascichi della guerra, misconosciuti dall'Austria e non riconosciuti dall'Italia a causa di interessi politici ed economici legati ai problemi della ricostruzione. Dovettero attendere il 1920 per conoscere ancora un po’ di prosperità ed un po’ di benessere sotto il nuovo sovrano, ma ciò non fu sufficiente a cancellare la loro cultura e le loro tradizioni spiccatamente d'oltralpe.
Corso di storia Contemporanea – Università Popolare di Mestre, doc. Fusaro Franco

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