LA GUERRA IN MONTAGNA: esempio dolomitico
Prima
della grande guerra, si sentiva spesso ripetere che, in qualunque
eventualità, le Alpi sarebbero state il teatro delle prime
operazioni. Oggi, che i confini politici dello stato raggiungono la
Vetta d'Italia, ciò che si prevedeva non è certamente più
discutibile. Infatti, la fascia montana compresa nel territorio
nazionale si allargò così tanto - soprattutto verso nord/est - da
far si che in caso di guerra, non solo si sarebbe dovuto iniziare a
combattere sui monti, ma si sarebbe dovuto continuare a combattere
per i monti e tra i monti. Con la Prima Guerra Mondiale, in Europa,
si videro gli eserciti fronteggiarsi, muoversi, combattere su un
fronte di 9700 km. di montagne. Si videro truppe vivere e trascorrere
inverni a 3 - 4000 metri, con le neve alta fino a 8 - 10 metri e
temperature che raggiungevano i 40 gradi sotto lo zero. Le si vide
arrampicarsi con corde, scale, chiodi su ghiacci e su pareti. Furono
inverni in cui la neve stabile era già presente a settembre e lo era
ancora ad aprile. Proprio nel mese di aprile del 1916, nei giorni
della conquista italiana del Passo della Sentinella, (Regione Popera
/Dolomiti di Sesto) furono misurati 11 metri di neve sul versante
austriaco e 9 su quello italiano. Era il venerdì precedente la
Pasqua e venne soprannominato il "Venerdì Bianco": 10.000
vite spezzate in soli tre giorni a causa delle slavine. In montagna,
quindi, la particolarità del terreno, il clima, le temperature e i
fenomeni atmosferici limitarono molto le operazioni militari: le
difficoltà che normalmente una guerra porta in pianura, in montagna
si presentarono decuplicate. Il concetto stesso di azione era
composto dall'insieme di tanti elementi coi quali bisognava fare i
conti prima di poter concretare il disegno delle operazioni che si
intendeva sviluppare. Inoltre, almeno per quanto riguarda l'Italia
(ma spesso anche i nostri avversari), la guerra veniva decisa a
tavolino, sulla carta, da generali che apartire
da Luigi Cadorna - non conoscevano l'ambiente alpino e ad esso
dedicavano soltanto frammenti del loro preziosissimo tempo per lo più
impegnato nelle grandi offensive delle pianure. L'Austria fu la
nazione che - più di ogni altra - seppe intravedere la necessità di
una preparazione alla guerra in alta montagna. Inoltre, intuendo la
guerra contro l'Italia, tutta l'istruzione e l'addestramento delle
truppe di confine fu rivolta a migliorare e moltiplicare le forze
dislocate su di esso. La punta di diamante delle truppe da montagna
austriache era rappresentata dalle "Hochgebirgskompanie"
(Compagnie d'Alta Montagna) più o meno corrispondente ai nostri
Alpini, particolarmente addestrate e quasi tutte composte da validi
alpinisti, guide alpine o comunque soldati particolarmente
predisposti a muoversi e a combattere su un terreno così impervio e
difficile. Di particolare fu che - il 20 maggio 1915 - per sopperire
alla mancanza di truppe, l'Austria creò le cosiddette "Pattuglie
Volanti", pattuglie formate anche da uomini attempati (anche
cinquantenni), ma di grande esperienza alpinistica. Erano infatti
quasi tutte guide alpine. La più famosa di queste pattuglie fu
sicuramente quella guidata dalla grande guida tirolese Sepp
Innerkofler che morì - il 4 luglio 1915 - durante una ormai
celeberrima azione di guerra volta alla occupazione del Monte
Paterno, in “Zona di Guerra” delle Tre Cime di Lavaredo. Certo è,
che una regione montana come il Cadore che limitava il confine di
Stato, era un ottimo elemento di offesa e difesa, specialmente nelle
fasi iniziali di una guerra come fu il Primo Conflitto Mondiale in
cui l'Italia dichiarò guerra all'Austria proprio per allargarsi ai
limiti confinari ed annettersi quelle terre che - dal punto di vista
geografico - avrebbero completato la sua fisionomia.
Le
linee confinarie montane, inoltre, costituivano ottime linee di
arroccamento e si prestavano a spostamenti di truppe anche in
posizioni che fossero fuori dalla vista degli osservatori nemici.
Prima dello scoppio della Grande Guerra, i confini dell'Austria erano
così disposti: a nord vi era il saliente Tridentino con il quale
l'Aquila Asburgica minacciava il cuore della Lombardia; ad est vi era
il saliente Veneto/ Pianura Friulana che le permetteva di tenersi
aperta una porta di circa 60km. con cui poter agevolmente riprendersi
ciò che i precedenti trattati le avevano tolto. E qui vorrei aprire
una breve parentesi. Nel 1866, la Commissione Italo/ Austriaca per i
confini aveva quasi dovunque favorito l'Austria, ma non in alcuni
punti particolarmente importanti del futuro fronte dolomitico, come
ad esempio sul Monte Piana, dove aveva ripristinato la vecchia linea
di confine stabilita nel 1753 fra la Serenissima Repubblica di
Venezia e la Contea del Tirolo. Qui, quasi tutto il vasto altopiano
risultò essere italiano, venendo a costituire una specie di
minaccioso cuneo puntato verso Dobbiaco. In caso di ostilità, tale
"cuneo" avrebbe consentito agli Italiani di sfondare verso
la Val Pusteria senza incontrare alcun ostacolo.. A tale minaccia,
gli Austriaci avevano rimediato - già dalla fine del 1800 - con
costruzione delle cosiddette "Chiuse Tirolesi", ovvero di
forti. "Chiusa" è una parola che deriva dal tedesco
"sperren" che significa chiudere, sbarrare. Infatti tali
opere erano un tipico esempio di come una singola costruzione
permettesse di tenere sotto controllo e quindi di "chiudere",
ovverosia sbarrare una strada o una intera vallata.
Allo
scoppio delle ostilità, tuttavia, tali costruzioni - mai ammodernate
- non risultarono più adatte alle esigenze belliche del momento e
perciò, completamente disarmate. I loro pezzi - di vario calibro -
vennero spostati in posizioni più consone alle necessità di tiro.
Gli Austriaci, però, utilizzarono i forti come deterrente
psicologico per le nostre truppe: di notte si illuminavano e
sputavano fumo dalle lunghe ciminiere. Intorno si manteneva un buon
movimento di uomini e mezzi. Insomma, allo scoppio della guerra, gli
Italiani sopravvalutarono gli avversari grazie anche a questi
stratagemmi e a tali "specchietti per le allodole". Ma
ritorniamo alla questione precedente. Al nuovo confine non
sicuramente gradito dall'Austria fu dato l'aggettivo di "iniquo"
e aveva un andamento paragonabile ad una grande "S"
coricata le cui curvature erano appunto rappresentate dal saliente
Tridentino e dal saliente Carnico. L'ultimo tratto di questa lunga
"cintura" era rappresentato - in direzione sud/est - dalla
conca di Cortina d'Ampezzo e racchiudeva la Val Cordevole, la Val
Costeana (sbarrata dalle opere della Val Parola) e la Val Bòite
(sbarrata dalle opere del Son Pòuses). La sera del 23 Maggio 1915
l'esercito italiano era pronto, forte di 35 Divisioni di Fanteria,
raggruppato in 4 Armate e una Riserva che comprendevano Alpini
(compresi gli sciatori), Bersaglieri (compresi i ciclisti), alcune
Divisioni di Cavalleria, Divisioni di Artiglieria pesante da montagna
e someggiata, fanterie delle varie armi. Gli Austriaci, fin dai primi
giorni del Maggio 1915, aveva affidato il comando delle proprie
truppe all'Arciduca Eugenio: contro la fedifraga Italia, la Monarchia
inviava un principe di Casa Regnante per dimostrare alle popolazioni
dell'Impero tutta l'importanza che bisognava dare alla lotta contro
l'ex alleata. Le forze austriache vennero divise in tre armate:
Armata del Tirolo, Armata della Carnia, Armata dell' Isonzo. Inoltre
presero parte alla guerra confinaria anche contingenti
dell'Alpenkorps Germanico.
In
Ampezzo, poi, il 16 maggio, si chiamarono ad una sommaria visita
militare tutti i non ancora arruolati dai 16 ai 50 anni, inquadrati
negli Standschützen, tiratori scelti, o nei Landstürmer, cioè
nella Milizia Territoriale. A tutti venne consegnata la divisa con
l'Aquila Tirolese. Per quanto riguarda il Landsturm, c'è una
curiosità: fra le sue fila militò Viktoria Savs, l'unica donna/
soldato della Prima Guerra Mondiale. Ragazza del '99, orfana di
madre, seguì il padre al fronte con uno speciale permesso
dell'Arciduca Eugenio d'Asburgo e venne arruolata nel Btg. di
Fanteria "Innsbruck II°" del reggimento citato. Solo pochi
alti ufficiale sapevano che il soldato Viktor era una ragazza.
Nell'aprile del 1917, mentre infuriavano i terribili combattimenti
del Sasso di Sesto (Zona di guerra "Tre Cime"), e mentre
Viktoria scortava un manipolo di prigionieri italiani in fondo alla
Val Campodidentro, sede del Comando Austriaco di Zona, lo scoppio di
una granata fece rotoalre un macigno che le maciullò una gamba. Solo
al momento tragico dell'amputazione si seppe la verità: il soldato
Viktor era una donna. Viktoria - pluridecorata - è morta nel 1979 ed
è stata sepolta con tutti gli onori solitamente tributati agli eroi
militari di sesso opposto. Ritorniamo ai prodromi della guerra. Il
fronte si snoda a nord di Cortina: alle armi sono stati chiamati 669
ampezzani, mandati a difendere il fronte tirolese. Ma la guerra
decisa sulla carta, a tavolino, da superbi generali nelle loro
eleganti divise, avrebbe assunto ben altro aspetto a contatto con
l'ambiente montano che aveva a sua disposizione armi terribili: il
freddo, la neve, levalanghe,
i congelamenti, malattie semplici, ma che lassù - a 3000 metri -
conducevano quasi sempre alla morte. E poi, il dramma umano di due
popolazioni che per secoli avevano vissuto in pace sotto l'egida
dell'Aquila Asburgica e che - da un giorno all'altro - videro le loro
famiglie divise, amici e parenti costretti ad indossare una divisa
che non sentivano loro e che videro i proprio campi ed i pascoli
trasformati in cimiteri per fare spazio a chi - dalla montagna -
tornava solo dopo morto. Immaginate la sofferenza di dover combattere
una guerra così vicina a casa e di vedere dall'alto delle cime i
focolari privati del padre, del giovane sposo, del figlio; una guerra
che segnò profondamente i nostri monti, ma anche e soprattutto il
cuore di chi la combatté. La guerra che l'Italia iniziò contro
l'Austria fu naturalmente una guerra offensiva che richiese subito -
dunque - disponibilità di mezzi, prontezza di decisioni, direttive
precise ed aggressività negli attaccanti ed ovviamente - data la
delicatezza della situazione internazionale - la necessità di agire
di sorpresa prima che l'Austria attaccasse.
Perciò,
ancora durante il periodo in cui l'Italia si era dichiarata neutrale,
il Capo di Stato Maggiore italiano, lentamente, per non dare
nell'occhio, fece gradualmente avvicinare ed ammassare alla vecchia
frontiera orientale (e qui entra in gioco il Cadore), una forte massa
di truppe di copertura, capace di fermare il nemico qualora avesse
tentato di invadere il nostro territorio. L'elemento sorpresa però,
ben presto cadde: infatti ai primi di Maggio del 1915, la
pubblicazione del "Patto di Londra", diffusa dalla stampa
internazionale ad opera dei nostri nuovi alleati, mise subito in
guardia l'Austria che venne così a conoscere la sicura volontà
dell'Italia di entrare in guerra contro di lei. Il 23 maggio 1915,
alle ore 7 di sera, all'Imperial Regio Ufficio Postale di Landro
venne consegnato - nelle mani di Giovanni Baur, Maestro di Posta - il
dispaccio che l'Italia aveva dichiarato guerra all'Austria. Lo
scadere dell'ultimatum era fissato per le ore 9 del mattino
successivo. Dunque l'apertura delle ostilità, il 24 Maggio 1915,
costituì per l'Italia la fedele osservanza di un impegno preso con
gli alleati, ma fu l'Austria - antica alleata e padrona - a far fuoco
per prima non rispettando neppure lo scadere dell'ultimatum: lo fece
con due colpi di cannone che partirono dall'armatissimo Monte Rudo
(nei pressi del famosissimo Monte Piana) in direzione di Forcella
Lavaredo (vicino alle Tre Cime) e che falciarono due nostri Alpini,
prime vittime dell'immane tragedia che si stava per consumare. La
vasta e profonda orma che, in 29 mesi di lotta, la guerra ha lasciato
in tutto il Cadore, rende molto difficile, se non impossibile fare
una sintesi degli avvenimenti militari svoltisi in tutta le regione
dal Maggio 1915 fino all'Ottobre 1917.
L'estensione
del teatro delle operazioni, le peculiari condizioni fisiche del
terreno, la natura delle linee di difesa apprestate dal nemico, la
molteplicità degli ostacoli da superare, la scarsità di mezzi
disponibili, che non permisero di iniziare subito una guerra
vigorosamente offensiva, fecero si che non si trattasse di sicuro di
una "guerra lampo" come all'inizio era stato previsto.
L'Italia fu costretta a rinunciare ad una rapida marcia sulla Val
Pusteria e la lotta si sminuzzò in una serie di avvenimenti tattici
sanguinosi: l'esercito italiano si dissanguò per conservare le
posizioni che, lentamente e penosamente, poté conquistare. La guerra
in Cadore fu tutta guerra di montagna durante la quale la figura
morale del nostro soldato, di tutte le armi e di tutti i corpi, si
manifestò in tutta la sua straordinaria semplicità e generosità. È
ovvio che su di tutti prevalse lo spirito alpino che ebbe sempre la
dedizione dei forti, sempre pronto all'aiuto, anche con il sacrificio
della propria vita. Accanto agli Alpini trovarono ampio spazio i
Fanti, provenienti da tutte le regioni d'Italia, spesso senza
particolari attitudini alla montagna. Inseparabili compagni
dell'Alpino e del Fante, specialmente in alta montagna, furono
l'Artigliere e lo specialista del Genio. Le direttive emanate
nell'Aprile 1915 dal Capo di Stato Maggiore dell'Esercito stabilivano
che durante il periodo della mobilitazione:"…la Quarta Armata
doveva iniziare l'espugnazione dei forti di Sesto, Landro e Val
Parola, dando all'azione spiccato carattere di vigore. Il primo
obiettivo doveva essere quello di impadronirsi del nodo di Toblach e
dei colli circostanti il nodo montuoso del Sella…". Ma, quando
il 22 Maggio 1915, il Comando Supremo ordinò all'Armata del Cadore
di impadronirsi al più presto delle posizioni oltre confine ritenute
utili allo sviluppo dell'offensiva programmata, essa - per le
motivazioni citate prima - fu in grado di occupare soltanto i Passi
di Valles e di San Pellegrino, e nella giornata del 26 impegnare col
nemico un duello di artiglieria nelle vicinanze di Cortina d'Ampezzo.
La bella cittadina austriaca subì l'invasione italiana a partire dal
pomeriggio del 28 maggio, occupazione che si spinse a nord fino al
Passo Tre Croci. Gli Italiani, timorosi di trovarsi di fronte ad une
esercito eccessivo per le proprie forze, esitarono ad occuparla e
forse, questa esitazione, fu la causa del protrarsi del conflitto che
finirà solo tre anni più tardi. A questo proposito va ricordato che
- sebbene l'esercito avversario fosse costituito da truppe ben
addestrate - l'Austria era già coinvolta nel conflitto mondiale
dall'anno precedente, dal 1914, e perciò molte delle sue forze erano
impegnate sul più vasto fronte europeo. Sebbene le artiglierie
d'assedio non fossero ancora giunte, il 1° Giugno fu ordinata
l'avanzata generale per raggiungere la linea da cui poi sarebbe
iniziato l'investimento. Il mattino del 5 Giugno, le nostre truppe
raggiunsero la linea d'investimento con qualche scontro di scarsa
importanza al Col dei Bois ed al Passo Falzarego. Parte della Riserva
d'Armata venne fatta avvicinare all'Averau ed alla Tofana di Ròzes
per farla operare in Val Travenánzes in collegamento con le truppe
destinate a puntare contro le posizioni del Son Pòuses. Tutte queste
posizioni erano fortemente e saldamente tenute dagli Austriaci
unitamente alla roccaforte del Sass de Stria. Infine, con
l'occupazione di Monte Piana gli Austriaci completarono il loro
posizionamento sullo "sbarramento di Landro" e di Prato
Piazza e fino all'Ottobre 1917 ogni sforzo per ricacciarli indietro
fu vano malgrado gli ingenti sacrifici di sangue e di mezzi.
Per
coprire lo "sbarramento di Sesto", gli Austriaci si
affrettarono ad occupare Cima Vanscuro ed il Monte Peralba,
minacciando la Val Pàdola. Anche sulle creste di confine, gli
avversari si rafforzarono e perciò, da ora in poi, le truppe
italiane dovettero affaticarsi non poco per conservare le posizioni
occupate con notevoli sacrifici. Nella prima settimana di luglio
raggiunsero il fronte le artiglierie pesanti e venne decisa la
ripresa delle operazioni. Nel frattempo era giunto anche il Gen.
Antonio Cantore che assunse il comando della Seconda Divisione che
comprendeva la zona Monte Piana - Son Pòuses - Tofane. Il Gen.
Cantore aveva un passato che ben poteva giustificare le chiacchiere
che correvano sul suo conto. Gli Alpini non "lo vedevano troppo
di buon occhio" forse perché "non aveva cominciato come
uno di loro" cioè non aveva un passato da Alpino. Ligure, di
Sanpierdarena, dove era nato nell'anno "dei Mille", invece
di diventare marinaio si fece alpino. Legno duro, si disse, fin
troppo duro, come quello che serviva per costruire gli alberi delle
navi. Ma era anche l'uomo che - in un momento tragico - diceva al
sottotenente che gli stava vicino: "…non si affacci, lasci
guardare a me che sono vecchio…". "…I miei Alpini…",
diceva, e il suo viso severo si illuminava di un sorriso. Ma non era
sempre bonaccia e il suo carattere estroso e lunatico a volte lo
metteva in cattiva luce con la truppa.
In
tutta la sua persona, non aitante, non seducente si avvertiva uno
straordinario vigore ed una inesauribile energia. Stare vicino a lui,
dicevano, era come stare vicino ad una catapulta all'ultimo scatto.
Imperioso, sovente ironico nella parlata non forbita, non sempre
casta, ma efficace, scultorea, sferzante. Sotto la corteccia a
rilievi sensibili, scrive Renzo Boccardi, si indovinava un forte
centro di cerebralità esuberante che, necessariamente, per le umili
esplicazioni che gli erano concesse in pace, si espandeva in un
forsennato dinamismo fisico ed intellettuale. Sotto la fronte, incisa
da rughe profonde, occultata fra la visiera e gli occhiali che la
blindavano di uno schermo cupo, si intuiva il formidabile
ribollimento di una mente ridondante, fecondata da una lunga e severa
vigilia di esperienza e di studio. Arrivato al "Settore Tofana",
per prima cosa creò una nuova unità alpina, il che - fatto da
Cantore - voleva dire un'opera immensa. La vita che imponeva ai suoi
uomini era estremamente dura. Levatacce più con le stelle che con il
sole. Marce interminabili con gli "Alt" misurati al
contagocce. Arrampicate che ogni volta diventavano un record. I
"battifiacca" diventavano suoi nemici personali. …"…
un giorno l'odiarono perché avevano cominciato ad amarlo, perché
pareva avesse ingiustamente punito un soldato e perché il giorno
successivo rischiò la vita per salvarne un altro…"… Si
diceva ormai: "Se ghe xè Cantore, i mucch'i far fagoto!".
Per di più, Cantore non sapeva e non voleva sentire parlare di
guerra di posizione. Voleva ed esigeva movimento. Egli vagava per
tutto il fronte montano, voleva vedere tutto, conoscere tutto. Per
lui tutto era essenziale, anche il dettaglio più modesto. Cantore,
dunque, avrebbe sicuramente potuto portare un contributo apprezzabile
nello studio e nella risoluzione di tanti problemi che la guerra
alpina portava con sé.
Grande
mistero è quello della sua morte, mistero che ancora non ha trovato
soluzione come alla fine non ha trovato soluzione il dilemma se
questo personaggio fosse veramente amato o odiato. Inoltre, anche dal
punto di vista militare, il generale non era - o forse non ebbe il
tempo di dimostrarlo - l'uomo delle attese e le sue operazioni furono
sempre segnate da grandi perdite e spargimenti di sangue. Non sta
comunque a noi dare un giudizio, anche perché ciò che accadde al
fronte è e sarà noto solo a chi visse in prima persona la tragedia
della guerra. La guerra si allargò: cruenti gli scontri del Monte
Piana, del Cristallo, delle Tofane; sanguinosi ed atroci gli scoppi
delle mine del Lagazuoi e del Castelletto; violenti i bombardamenti
dei paesi di Dobbiaco, San Candido, Moso, Sesto, Prato della Drava;
gravissime le perdite per entrambi gli eserciti sulle Dolomiti di
Sesto dovute alle incredibili slavine provocate dai molteplici metri
di neve che caratterizzarono gli inverni del 1916 e del 1917.
Entrambi gli eserciti vissero una guerra estenuante anche dal punto
di vista psicologico arroccati su posizioni che nel corso del
conflitto non cambiarono di molto e l'ostinazione a non cedere spesso
fu incoraggiata dall'erronea credenza di vincere la resistenza con la
pertinacia. Si facevano continuamente piani per scacciare gli
avversari da una data posizione e la necessità di agire diventava
ossessione per i comandanti: un incubo incessante gravava sui loro
animi e tale situazione si ripercuoteva sulle truppe. A turbare
maggiormente gli spiriti, concorreva talvolta la vanapromessa che
dopo quella certa azione i reparti sarebbero stati inviati a godere
un periodo di meritato riposo; ma quando le operazioni si
susseguivano con crescendo esasperante, il mancato mantenimento della
promessa indispettiva e demoralizzava profondamente gli animi. A
tutto ciò concorse il fatto che gli inverni del 1915 e del 1916
furono, come già si è detto, gli inverni più terribili degli
ultimi 90 anni con temperature che scesero abbondantemente oltre i
40°c sotto lo zero. Fra alterne vicende di attesa e di
combattimenti, si giunse al 1917. Neppure immaginabili erano le
condizioni degli uomini al fronte: la fame, il gelo, le valanghe,
l'umidità, i pidocchi, la dissenteria, i trasporti, le "corvèes".
Non parliamo poi dei feriti, spesso lontani dai posti di medicazione,
talvolta abbandonati al loro destino per l'impossibilità di
raggiungerli o perché non vistiMolti i casi di pazzia fra i soldati
più deboli, soprattutto dopo i combattimenti corpo a corpo o dopo un
martellante attacco d'artiglieria. Fu in tale occasioni che venne
coniato il termine "scemo di guerra"… Ormai era solo
sofferenza: non vi erano più combattimenti di rilievo ad eccezione
delle mine. I fronti, stabilizzati, indussero infatti i Comandi a
progredire in questo particolare tipo di guerra: far brillare grosse
mine collocate in profonde gallerie. Furono appunto di quest'annata
di guerra le famose mine del Lagazuoi. Si arrivò così al drammatico
momento della ritirata di Caporetto: era il 24 ottobre 1917. Il 5
Ottobre, l'ultimo reparto aveva lasciato Cortina d'Ampezzo e nello
stesso giorno gli Austriaci vi rientrarono accolti con entusiasmo
perché con loro stavano per ritornare a casa i padri, i figli, i
mariti, i fratelli. Gli immani sacrifici compiuti sulle montagne
avevano sempre di più il sapore di una farsa, tanto più che per
molte delle popolazioni delle nostre vallate il significato di questa
guerra era rimasto oscuro, una guerra che aveva diviso con una
trincea popoli legati da vincoli di cultura e di fratellanza. La
nostra armata che si era prodigata per circa 30 mesi in sacrifici
considerevoli, dovette ripiegare sul Grappa dove arrestò i nemici a
Dicembre. Come tutti sappiamo, seguirono le battaglie sul Piave e di
Vittorio Veneto e, nell'Ottobre 1918, gli Austriaci vennero
definitivamente ricacciati oltre il confine della Patria. Il 4
Novembre 1918 la guerra finì con la firma dell'armistizio di Villa
Giusti. Purtroppo, i paesi confinari di Dobbiaco, San Candido, Moso,
Sesto e Prato della Drava subirono ancora per quasi due anni gli
strascichi della guerra, misconosciuti dall'Austria e non
riconosciuti dall'Italia a causa di interessi politici ed economici
legati ai problemi della ricostruzione. Dovettero attendere il 1920
per conoscere ancora un po’ di prosperità ed un po’ di benessere
sotto il nuovo sovrano, ma ciò non fu sufficiente a cancellare la
loro cultura e le loro tradizioni spiccatamente d'oltralpe.
Corso
di storia Contemporanea – Università Popolare di Mestre, doc.
Fusaro Franco
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