Trincea a terrazza appena conquistata
“Chi
c’era già stato ci aveva detto lo strazio e il macello che vi
avremo trovato. Confesso che la realtà apparsami appena v’entrai,
superava infinitamente in orrore tutte codeste descrizioni. Già
prima di giungervi, per una breccia ruinosa apertavi da qualche
nostra bombarda, fui come assaltato da un fetore caldo e pesante di
carne putrefatta, il quale si spandeva tutt’intorno contaminando
l’aria di quel mattino radioso. Quando, ritto sul parapetto, potei
guardar dentro alla fossa, quello che vidi era qualcosa che
difficilmente si può ridire.
Arrovesciati
tra le pietre e il fango, aggrovigliati tra loro, spezzati, sbuzzati,
dilaniati, una catasta lunga di cadaveri si stendeva a destra, a
sinistra, rigurgitava dai ricoveri, dalle caverne. Di sotto il
terriccio ripiovuto su di essi nelle esplosioni immense, uscivano
mani gonfie, nere di bruciaticcio, ginocchia infrante, scarpe
fangose, spalle verdi e violette, miste ad elmetti squarciati, a
mitragliatrici, fucili, baionette in frantumi, tegami e coperte.
Sopra
un mucchio di membra maciullate, un uomo giaceva, scontorto, le cosce
trebbiate, il petto squarciato e livido per i brandelli della giubba
arsa. Non aveva più faccia, ma, dalla gola alla fronte, una specie
di piaga sanguinolenta, una poltiglia di carne nericcia e d’ossi
infranti, dove non si riconosceva che il gorguzzole ritto, simile a
un saltaleone rosso di quella fanghiglia, e l’arco biancheggiante
delle orbite vuote.
E
su tutto quel putridume che il sole coceva, un ronzio di mosche
accanite a succhiare il sangue raggrumato e la marcia…
Ogni
tanto, dove qualche frana aveva guastato la linea, sembrava che
l’ammasso dei morti s’interrompesse, e camminavano come se il
fondo del fosso fosse stato libero: a non era che un più fitto
strato di terriccio sul quale non si poteva posare il piede senza
sentirlo affondare in qualche cosa di elastico o di molliccio come un
ventre gonfio o disfatto.
A.
Soffici, Kobilek. Giornale di battaglia, op.cit., pagg.135-137
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