La pittura nell’Antica Roma

È sintomatico che il primo autore latino a essersi diffusamente occupato della decorazione parietale romana sia stato
Vitruvio, cioè il massimo esperto di architettura dell’Antica Roma. Nel suo più celebre trattato sull’argomento, il De Architectura, redatto alla fine del I secolo a.C., Vitruvio dedicava una delle pagine più interessanti del VII libro alla storia della pittura romana, fornendoci una serie di utilissimi dettagli di cui si è abbondantemente servita la moderna storiografia artistica e che hanno trovato notevolissimi riscontri nelle scoperte archeologiche, tanto a Roma quanto a Pompei ed Ercolano.
Gli antichi dapprima imitarono i rivestimenti marmorei; in seguito la distribuzione dei festoni, delle baccellature, delle cornici; in un terzo momento provarono anche a imitare figure di edifici, con colonne e fastigi distaccati dal fondo e in prospettiva; e nei luoghi aperti, poi, come nelle esedre, dato il respiro delle pareti, rappresentarono scenari tragici, comici, o satirici; invece nei criptoportici l’ornamento pittorico fu rappresentato da una serie variata di paesaggi e cioè porti, promontori, lidi, fiumi, fonti, canali, santuari, boschi sacri, monti, greggi e qualche pastore; nello stesso tempo furono raffigurati simulacri di dèi o episodi mitologici o combattimenti presso Troia o i viaggi di Ulisse di terra in terra”.
Vitruvio, però, appariva essere anche particolarmente critico verso le ultime “tendenze artistiche” del neonato Impero Romano, un po’ come li sarebbe oggi dinanzi ad alcuni fenomeni di arte contemporanea“Tutti questi temi ora vengono disattesi e sugli intonaci vengono dipinte cose insensate, piuttosto che oggetti normali e definiti: invece di colonne, pareti striate, al posto dei frontoni, sviluppi vitinei e anche candelabri che sostengono figure di tempietti, sui timpani dei quali sorgono in mezzo a volute teneri fiori, che presentano, senza alcun senso, statuine sedute sul loro calice; nonché steli a forma di statua, alcune con testa umana, altre di forma animalesca. Tutte queste cose non esistono, non possono esistere, non ci furono mai. Come può una canna sostenere davvero un tetto, o un candelabro le strutture di un frontone, o una molle voluta reggere una statua seduta, oppure steli e rami venir fuori ora dai fiori ora dai busti? E pur vedendo che son cose false, gli uomini le apprezzano! A questo hanno portato i nuovi costumi; infatti, le menti malate e annebbiate non sono più capaci di apprezzare ciò che è verosimile e decoroso. Mentre gli antichi cercavano di incontrare l’approvazione del pubblico lavorando molto d’ingegno, ora, invece, si ottiene lo stesso effetto con i colori e con le illusive figure apparenti”.
Alla luce di queste notizie tramandateci dagli storiografi dell’antichità, gli esperti della pittura romana hanno tentato di ricostruire l’evoluzione dei sistemi decorativi parietali, a cominciare dallo studioso tedesco August Mau che nel 1872, basandosi sul ricco materiale pompeiano venuto alla luce sin dal secolo precedente, ideò una teoria evolutiva della pittura parietale romana, individuando in successione quattro diversi stili.
Sebbene il termine “stile” sia stato spesso soggetto a qualche critica, poiché basato sulle differenti peculiarità formali anziché su una vera e propria analisi degli elementi stilistici, la teoria degli “stili pompeiani” rappresenta ancora oggi una valida base di riferimento per identificare le evoluzioni pittoriche, tanto da estendersi dalla base pompeiana fino al resto della pittura romana, con ovvie caratterizzazioni dovute alle tendenze artistiche locali presenti nelle di verse regioni dell’Impero.
Basandosi ovviamente sullo studio di Pompei, città distrutta da quella che fu senza alcun dubbio la più devastante catastrofe naturale della storia antica di Roma, August Mau ideò una suddivisione che si sviluppava entro un arco cronologico che dal II secolo a.C. giungeva proprio all’eruzione del Vesuvio.
Il I stile, che si diffuse durante il II secolo a.C. ed all’inizio del I secolo a.C., prevedeva un sistema di emulazioni delle incrostazioni marmoree e dei parati murari, molto spesso arricchite e sostanziate da sottolineature in stucco, mentre risultavano estremamente rari, in questo periodo, gli elementi figurativi. Questo stile, che in buona sostanza si proponeva come una vera e propria imitazione architettonica e strutturale, si ispirava direttamente alla decorazione parietale dei palazzi ellenistici di Alessandria o di Pergamo, riproducendone le preziose coperture marmoree. Di tale fase decorativa restano pochissime testimonianze, attestate soprattutto a Pompei e nell’Italia meridionale, mentre a Roma è purtroppo quasi completamente assente.
Durante il I secolo a.C. si sviluppò il II stile che, pur non dimenticando l’espediente delle incrostazioni marmoree, inaugurò un sistema totalmente diverso, decisamente più complesso e sontuoso, con audaci prospetti architettonici che lasciavano intravedere altri spazi ed ulteriori ambienti in lontananza. All’interno di questa complessa sintassi architettonica venivano incastonati piccoli gioielli d’arte, come se venissero posate delle statue sui podi o se fossero appesi dei quadri alle pareti. Di questo fastoso II stile sono rimasti esempi celebri anche a Roma, come nella Casa di Augusto o nella Casa di Livia sul Palatino, nonché negli ambienti della Villa di Livia a Prima Porta e nelle sale della domus trovata sotto Villa Farnesina, esposti oggi al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo.
Ai tempi di Augusto e Tiberio si viene a definire il III stile che, optando per elementi esili e miniaturistici ridotti all’essenziale, e con l’introduzione di forme egittizzanti ed esotiche, tese a snellire le fastose e opulente strutture architettoniche dello stile precedente. Le pareti risultarono più unitarie e piatte, con rare aperture verso paesaggi e scene mitologiche, rese comunque in maniera illusionistica e virtuale. Di questa fase decorativa, che possiamo considerare transitoria è poco connotata rispetto alla forza e alla originalità degli stili che la precedono e che verranno dopo di essa, restano poche tracce a Roma; tra queste sono significative quelle relative alla decorazione interna della Piramide di Caio Cestio e, in parte, quelle dell’Auditorium di Mecenate all’Esquilino.
Il IV stile si sviluppò nel periodo che va dall’Impero di Claudio all’eruzione del Vesuvio, con un picco di particolare pregio durante l’Impero di Nerone, e propose una sorta di complesso riassunto degli stili precedenti, con forme architettoniche ancora vigorose, ma spesso eccessivamente improbabili e fantasiose, tanto da aver indotto alcuni studiosi ad adoperare un paragone anacronistico, paragonando il IV stile alla frivolezza del rococò. Esistono comunque straordinari esempi dello stile in questione, in particolare nella Domus Transitoria e nella Domus Aurea, entrambe connesse alla figura di Nerone.
Sotto Traiano e Adriano si notò una sorta di maturazione del IV stile, con frequenti articolazioni architettoniche che componevano padiglioni centrali i quali solitamente accoglievano quadri mitologici, come si può vedere nella Casa delle Muse di Ostia o nella Villa Adriana a Tivoli.
In particolare in questa fase, nonché nei secoli successivi, la pittura parietale dovrebbe essere considerata in un rapporto strettissimo, quasi intimo, con i supporti e con gli ambienti che impreziosivano gli ambienti, in particolare le decorazioni in opus sectile (un rivestimento realizzato con tarsie di marmi policromi) ed i mosaici che ricoprivano i pavimenti.
Il già citato atteggiamento violentemente critico di Vitruvio, profondamente fedele ai principi artistici che improntarono tutta la sua teoria architettonica e che non gli consentirono di apprezzare il fantastico pittoricismo e l’esuberante libertà decorativa della pittura romana del suo tempo, trovò un’eco significativa, nel I secolo d.C., nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, il quale non apprezzava in particolare il lusso, la ricchezza e l’eccessivo sperpero di denaro della pittura romana, lodando altresì i pittori greci per il loro parco uso dei colori.
Con soli quattro colori riuscirono a eseguire delle opere immortali. Parlo di famosissimi pittori come Apelle, Ezione, Melanzio, Nicomaco, quando uno solo dei loro quadri veniva acquistato con le entrate di una intera città. Ora, invece, noi non abbiamo più pittura. Tutte le cose migliori si ebbero allora, quando c’erano meno risorse”.
Plinio il Vecchio opera un’interessante distinzione tra i colori, dividendoli in due categorie ben distinte: colores floridi e colores austeri. I primi sono quelli che noi chiameremmo colori trasparenti e i secondi colori a corpo.
I colores floridi erano talmente preziosi che venivano spesso forniti direttamente dal committente ed erano i seguenti: minium (minio), armenium (azzurro), cinnabris (cinabro), chrisocolla (borace, ottenuta con il silicato di rame), indicum (indaco) e purpurissum (porpora, colorante di origine animale). Di questi il minio e il cinabro, mescolati con altri colori, erano usati per ottenere il famoso “rosso pompeiano”, probabilmente il colore più celebre fra cui giunti sino a noi.
I colores austeri venivano suddivisi in due gruppi, ossia quelli che si rintracciavano in natura e quelli che si ottenevano con una speciale preparazione. In natura si trovavano: la sinopis (terra rossa), la rubrica (ocra bruciata), il paraetonium (bianco calce), il melinum (terra bianca proveniente dall’isola di Melos), l’eretria (un’altra terra bianca), l’auripigmentum (giallo). I colori preparati erano invece l’ocra (color minio), il sandyx (color cremisi), il syricum (color rosso intenso) e l’atramentum (color nero profondo).
Sia Vitruvio sia Plinio trattarono, nelle loro opere, della preparazione dei diversi strati d’intonaco su cui si stendeva la pittura (tectorium). Sul muro in laterizio o in tufo veniva applicato un arriccio di malta mista a calce, sul quale si applicava un sottile strato di intonaco. La regola esigeva una stratificazione di ben sette livelli, anche se solo in casi rarissimi era rispettata alla lettera; l’ultimo strato veniva steso nel momento stesso in cui si decideva di eseguire l’affresco e doveva rimanere umido per tutta l’operazione decorativa, che poteva anche svolgersi in più giornate e che spesso rendeva per questo motivo evidente l’attacco dei diversi momenti decorativi.
Tutte queste operazioni venivano eseguite da gruppi di artigiani specializzati. Dalle fonti e dall’epigrafia sappiamo che esisteva il semplice pictor parietarius, ma anche lo specializzato pictor imaginarius, le cui paghe dovevano essere decisamente molto diverse: al tempo di Diocleziano, ad esempio, il primo poteva guadagnare circa 75 denari, mentre per il secondo l’ammontare era più o meno il doppio. Si tratta in ogni caso di “stipendi base”, riservati alla manodopera più bassa: ai tempi dell’Antica Roma non mancarono artisti ricchi e famosi, fra i quali spiccarono ad esempio Fabius Pictor, che firmò gli affreschi del tempio della Salus sul Quirinale, o Fabullus, pittore della Domus Aurea che aveva la tradizione di lavorare in toga. Nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, inoltre, abbiamo il ricordo di pittori più o meno famosi, tra cui Pireico, un pittore di genere vissuto nel IV secolo a.C. divenuto celebre per aver rappresentato botteghe di barbieri e calzolai, animali domestici e nature morte, oppure il pittore Studio, attivo in età augustea, che era famoso per i suoi paesaggi popolati da ville, porti, giardini, boschetti sacri, foreste e colline.

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