Giulio II, il Papa guerriero

Tra XV e XVI secolo, grosso modo tra l’elezione di Papa Martino V (1417) al termine del Concilio di Costanza e l’inizio della Riforma luterana, durante quel periodo che nei libri di Storia è noto come “Rinascimento”, il Papato tocca l’apice della potenza e dello splendore. Superati i difficili decenni dello Scisma d’Occidente la Santa Sede può finalmente riaffermare il proprio indiscusso primato spirituale su tutto il mondo cristiano, non più insidiata da antipapi pronti a contestare l’autorità del Pontefice regnante. In questo periodo i Papi finirono con l’assomigliare più a uomini di potere che a pastori di anime, non dissimili dagli altri principi laici loro contemporanei preoccupandosi più che della Chiesa, degli interessi temporali dello Stato della Chiesa, inserendosi a pieno titolo nel grande gioco politico e diplomatico dell’epoca.
Tra i maggiori protagonisti della stagione rinascimentale del Papato si trova senza dubbio Giuliano della Rovere, eletto Pontefice nel 1503 col nome di Giulio II e rimasto sul trono di San Pietro per un decennio, fino alla propria morte avvenuta nel 1513. Uomo dotato di una forte personalità e di di un grande carisma, Giulio II non a caso è passato alla Storia coi soprannomi di “Papa guerriero” e “Papa terribile” sia per i frequenti scatti d’ira che ne caratterizzavano il carattere sia per la spiccata propensione all’uso della forza armata in difesa degli interessi della Chiesa. Tuttavia Giulio II fu un vero “Papa-Re” non solo per la sue doti di condottiero ma anche per il suo generoso mecenatismo. Papa Della Rovere infatti non badò a spese per abbellire Roma, che sotto il suo pontificato divenne uno dei principali centri del Rinascimento italiano, in grado di rivaleggiare per magnificenza con la Firenze medicea.
Questo Papa collerico e spendaccione nacque il 5 dicembre 1443 in quel di Albisola (cittadina oggi divisa in due comuni distinti, Albisola Superiore e Albissola Marina, entrambi in provincia di Savona) nell’allora Repubblica di Genova. Battezzato col nome di Giuliano, il futuro Papa era il primogenito del nobiluomo savonese Raffaello Della Rovere e di sua moglie Teodora di Giovanni Manirola, donna di origini greche.
A giocare un ruolo cruciale nella formazione del ragazzo contribuì il fratello maggiore del padre, suo zio Francesco Della Rovere. Membro dell’Ordine francescano, questi era un abile predicatore e un fine teologo autore, fra l’altro, di un trattato intitolato De Sanguine Christi nel quale, in aperta polemica coi domenicani, sostenne che il sangue di Cristo versato prima della Passione non avrebbe alcun valore salvifico.
Sotto la sicura tutela dello zio Giuliano studiò presso i frati francescani, per poi prendere i voti ed entrare a sua volta nell’ordine. Giuliano pareva quindi destinato a trascorrere l’esistenza tra le mura di un convento se non che nel 1467 suo zio Francesco venne promosso cardinale da Papa Paolo II venendo poi eletto pontefice quattro anni dopo alla morte di quest’ultimo. Tra le prime decisioni del nuovo Papa vi fu infatti quella di nominare il nipote ventottenne dapprima Vescovo di Carpentras e poi cardinale presbitero di San Pietro in Vincoli. Questi furono soltanto di una brillante carriera che avrebbe portato Giuliano sino alla Cattedra di Pietro.
Nel corso dei successivi vent’anni avrebbe infatti accumulato incarichi sempre più prestigiosi: dalla diocesi di Carpentras passò infatti dopo appena un anno a quella di Losanna e poi a quella di Catania, vedendosi assegnare anche l’incarico di amministratore apostolico di Messina. Di lì a poco venne nominato arcivescovo di Avignone e poi legato pontificio dapprima nelle Marche e successivamente a Bologna. Nonostante tutti questi incarichi però Giuliano riusciva evidentemente a trovare anche il tempo per dedicarsi a diversi passatempi: amante della vita all’aria aperta, monsignor Della Rovere amava cavalcare, tirare con l’arco ed era, da buon ligure, un vogatore instancabile. Altre passioni del futuro Papa erano la buona tavola oltre che, fatto tutt’altro che inusuale per un alto prelato del Rinascimento, le donne. Giuliano Della Rovere ebbe diverse amanti e almeno una figlia illegittima, Felice Della Rovere, in seguito maritata con l’aristocratico romano Gian Giordano Orsini, Duca di Bracciano.
In quanto cardinal nipote di Sisto IV, nei tredici anni del pontificato di suo zio, Giuliano guadagnò grande influenza in seno al collegio cardinalizio, un prestigio che non fece che aumentare nei successivi otto anni di regno di Papa Innocenzo VIII (il genovese Giovanni Battista Cybo). A quello stesso periodo risale l’inizio della profonda rivalità con il cardinale catalano Roderic de Borja, meglio conosciuto come Rodrigo Borgia, a sua volta nipote del Pontefice Callisto III. Quando nel 1492 Innocenzo VIII morì, il quarantanovenne monsignor Della Rovere apparve come uno dei candidati più quotati per raccoglierne la successione. Tuttavia il Trono di San Pietro gli fu “scippato” dall’arcinemico Borgia al termine di un conclave viziato da forti sospetti di simonia. Lo scandaloso prelato spagnolo divenne così il nuovo Vicario di Cristo con il nome di Alessandro VI, scelto a quanto pare in omaggio all’antico condottiero macedone. Temendo per la propria incolumità Giuliano fu costretto ad abbandonare l’Urbe per rifugiarsi nella sua diocesi di Ostia, alla foce del Tevere. Da qui poi si imbarcò su una nave diretta a Genova e da lì si trasferì a Parigi alla corte di Carlo VIII di Francia. Fu l’inizio di un esilio che si sarebbe protratto sino al 1503, anno della morte di Papa Borgia. Solo allora Giuliano poté fare ritorno a Roma.
Nel conclave apertosi di lì a poco il cardinale Della Rovere appoggiò la candidatura di monsignor Francesco Todeschini-Piccolomini, il quale in omaggio all’illustre zio e predecessore Pio II (al secolo Enea Silvio Piccolomini, r. 1458-1464) prese il nome di Pio III. Tuttavia il suo pontificato sarebbe stato ricordato come uno dei più brevi della Storia: eletto il 22 settembre, Papa Piccolomini, già colpito da una malattia mortale, si spense infatti il 18 ottobre successivo, dopo appena 26 giorni di regno. In vista dell’imminente votazione Giuliano seppe guadagnarsi il favore degli altri 37 porporati. Fondamentale si dimostrò l’appoggio della fazione borgiana: Giuliano ad esempio promise a Cesare Borgia – figlio di Alessandro VI – la conferma dei possedimenti da lui conquistati durante il pontificato del padre anche se una volta eletto si sarebbe adoperato per abbattere una volta per tutte il “Duca Valentino”, spogliandolo di tutti i suoi titoli per poi farlo arrestare e incarcerare in Castel Sant’Angelo.
Così, al termine del conclave più breve della storia – appena dieci ore nella notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre 1503 – Giuliano Della Rovere venne eletto all’unanimità quale 216° Papa della Chiesa Cattolica. Significativa fu la scelta del nome da parte del neoeletto Pontefice il quale scelse, accorciando il suo nome di battesimo, di chiamarsi Giulio II in omaggio non tanto all’oscuro predecessore Giulio I – vissuto nel IV secolo – quanto piuttosto al Divus Iulius, a Giulio Cesare, a cui Papa Della Rovere volle essere accostato nell’immaginario collettivo fin dalla sfarzosa cerimonia dell’incoronazione durante la quale il corteo passò sotto sette archi trionfali di foggia anticheggiante.
Così come Cesare era stato il principale artefice della grandezza dell’antica Roma, così Giulio II si proponeva di portare la Roma pontificia verso nuove altezze. Tra i primi obbiettivi di Giulio II vi fu infatti quello di riaffermare il potere papale sui territori della Chiesa. Lo Stato, o meglio gli Stati, Pontifici erano infatti composti da una galassia di principati e signorie i cui titolari affermavano di governare in nome di Roma pur comportandosi nei fatti come dei sovrani indipendenti. Per ricondurre all’obbedienza i suoi riottosi vassalli Giulio II non esitò a ricorrere a metodi ben poco cristiani, primo fra tutti l’uso spregiudicato della forza armata. Del resto di che pasta fosse fatto, Papa Della Rovere lo aveva già dimostrato quando, ancora cardinale, nel 1474 aveva assalito armi in pugno la ribelle Todi in nome di suo zio Sisto IV. Tale passione di Giulio II per la vita militare ha lasciato un’eredità duratura: fu lui a fondare la celeberrima Guardia Svizzera Pontificia, attraverso l’arruolamento del primo contingente di 150 mercenari elvetici che giunsero a Roma il 22 gennaio 1506 al comando del capitano Kaspar von Silenen, del Canton d’Uri.
Nell’agosto dello stesso anno il Papa annunciò in concistoro ai cardinali che i tempi erano maturi per la riconquista di Perugia, allora sotto il controllo di Giampaolo Baglioni. Il 26 agosto il seguito papale si mise in marcia con in testa ovviamente Giulio II e il Santissimo Sacramento racchiuso in un ostensorio. Con la mediazione del cardinale Antonio Ferrero e del Duca di Urbino Guidobaldo da Montefeltro, Giampaolo Baglioni accettò di sottomettersi al Papa accettando la presenza stabile di un legato pontificio a Perugia, dove Giulio II entrò il 13 settembre 1506. Rafforzato dai soldati perugini e dai rinforzi messi a disposizione da Luigi XII di Francia, il contingente pontificio si preparò a puntare su Bologna. Il 2 novembre mentre Giulio II e il suo seguito si trovano a Imola giunse la notizia che il signore di Bologna, Giovanni II Bentivoglio, era fuggito a Milano sotto la protezione del Re di Francia. L’11 novembre 1506 Papa Della Rovere poté così fare il suo ingresso nel capoluogo felsineo.
Restava solamente un ostacolo alla piena riaffermazione del potere temporale della Santa Sede sui territori pontifici e questo era costituito da Venezia. Tra la metà del XV e l’inizio del XVI secolo la Serenissima aveva infatti allargato la propria sfera di influenza occupando i centri di Ravenna, Rimini, Cesena e Faenza. Giulio II aveva cercato una soluzione diplomatica, chiedendo a Venezia la restituzione delle città romagnole conquistate. La Repubblica, nonostante si fosse mostrata disposta a riconoscere la sovranità papale sulle città della costa romagnola e a versare un tributo annuale a Giulio II, non aveva nessuna intenzione di cederle. Il rifiuto della Serenissima spinse il pontefice a formare una coalizione anti veneziana insieme con la Francia – interessata al ottenere il controllo della Lombardia orientale, sotto il controllo veneziano – e con l’Imperatore Massimiliano I d’Asburgo. La triplice alleanza fu siglata il 22 settembre 1504 a Blois in Francia ma la guerra fu temporaneamente evitata dall’atteggiamento conciliante di Venezia, che accettò di trattare con il pontefice cedendogli nel 1505 alcune città minori della Romagna. Due anni dopo, riconquistate Perugia e Bologna, Giulio II ingiunse nuovamente alla Serenissima di cedere i territori romagnoli ma ottenne un secco diniego da parte del Senato veneziano.
La guerra con Venezia scoppiò infine quando, a metà marzo del 1508, la Serenissima nominò il proprio candidato alla vacante Diocesi di Vicenza, un atto che Giulio II considerò una provocazione. Nel 1508 venne pertanto costituita la Lega di Cambrai, nella quale il Papa, il Re di Francia e l’Imperatore si unirono per distruggere Venezia e spartirsene le spoglie assieme al re d’Ungheria e ai Duchi di Ferrara, Mantova e Savoia. Sebbene, di fronte al pericolo incombente, Venezia si offrisse il 4 aprile 1509 di restituire Faenza e Rimini allo Stato della Chiesa, il 27 aprile Giulio II lanciò la scomunica sulla Serenissima e nominò il Duca di Ferrara Alfonso d’Este Gonfaloniere di Santa Romana Chiesa, ossia comandante in capo delle truppe pontificie. Intanto il 15 aprile 1509, Luigi XII lasciò Milano a capo di un esercito francese e si mosse rapidamente in territorio veneziano. In risposta la Serenissima arruolò un esercito mercenario affidandone il comando ai condottieri Bartolomeo d’Alviano e Nicolò Orsini di Pitigliano. Il 14 maggio 1509 le truppe francesi si scontrarono con quelle veneziane nella battaglia di Agnadello, in provincia di Cremona, riportando una grande vittoria. Venezia fu allora costretta ad abbandonare i propri possedimenti in Terraferma per concentrarsi sulla difesa della Laguna.
L’affermazione del potere francese su tutta l’Italia settentrionale non più controbilanciato da Venezia, finì però col destare non poche preoccupazioni ai vari principi che ben si guardarono dal liquidare completamente la Serenissima. Anzi, entrato in urto con il sovrano francese, nel 1510 Giulio II ritirò la scomunica contro Venezia in cambio della cessione della Romagna da parte della Serenissima. Di più: il Papa e Venezia giunsero a stipulare una vera e propria alleanza in funzione antifrancese.  Il motto di Giulio II divenne allora “fuori i barbari!”. Mentre le truppe della Serenissima riprendevano il controllo del Veneto, il pontefice conquistò Modena, Reggio Emilia, Parma e Piacenza. Il 20 gennaio 1511 Giulio II prese parte in prima persona – all’età di sessantotto anni! – alla presa della fortezza di Mirandola, tenuta dagli Estensi di Ferrara alleati dei Francesi, evitando una palla di cannone e scalando le mura della cittadella nonostante una forte nevicata.
Nell’ottobre di quello stesso anno il Papa diede vita ad una vera e propria Lega Santa che vide l’adesione, oltre che naturalmente di Venezia, anche di Ferdinando il Cattolico, di Massimiliano d’Asburgo, dei Cantoni svizzeri e persino del Re d’Inghilterra Enrico VIII. Il Papa giunse a giurare che non si sarebbe più tagliato la barba fino a quando l’ultimo soldato francese non fosse stato ricacciato al di là delle Alpi. L’11 aprile 1512, si svolse la violentissima battaglia di Ravenna, nella quale le forze francesi sconfissero l’armata ispano-pontificia guidata da Raimondo de Cardona e Fabrizio Colonna. Per la Francia si trattò, comunque, di una vittoria pirrica: tra le file transalpine cadde anche il brillante generale Gaston de Foix, detto la “Folgore d’Italia”. Minacciati da un nuovo esercito svizzero reclutato dal Papa, i francesi furono costretti a evacuare la Lombardia mentre Giulio II, al culmine del potere e della gloria, convocò un grande congresso diplomatico a Mantova nel quale venne discusso il nuovo assetto politico della Penisola: lo Stato Pontificio inglobò Piacenza, Reggio Emilia, Parma e Bologna. Genova riacquistò la propria autonomia, mentre Milano venne assegnata a Massimiliano Sforza, figlio del Duca Ludovico il Moro mentre a Firenze tornarono a dominare i Medici.
Ma, come abbiamo detto in apertura, Giulio II non si distinse solo per la propensione alle soluzioni militari delle questioni internazionali. La fama del Papa è infatti indissolubilmente legata ai progetti artistici che portò avanti, facendosi patrono di alcuni tra più grandi artisti di sempre quali Bramante, Michelangelo e Raffaello, e offrendo loro la possibilità di creare opere che sono tuttora annoverate tra i capolavori dell’arte occidentale. Dietro i suoi slanci da mecenate è però sempre presente un saldo intreccio di politica e arte, legato ai progetti di renovatio dell’Urbe, sia sul piano monumentale che politico, nell’obiettivo di restituire a Roma e all’autorità papale la grandezza del passato imperiale.
Al principio del 1506 Giulio II prese l’ardita decisione di abbattere l’antica Basilica di San Pietro in Vaticano, risalente ai tempi dell’Imperatore Costantino, affidandone i lavori a Donato Bramante, giunto a Roma alcuni anni prima in seguito alla caduta del suo precedente “datore di lavoro”, il Duca di Milano Ludovico il Moro. L’architetto marchigiano aveva già curato per conto del pontefice il nuovo assetto viario di Roma, realizzato con l’apertura di Via Giulia e l’allungamento di Via della Lungara, che da Piazza della Rovere conduce a Porta Settimania. Bramante, nominato sovrintendente generale delle fabbriche papali, progettò una San Pietro dalla pianta a croce greca – poi modificata a croce latina – con un’enorme cupola emisferica centrale e quattro cupole minori alle estremità dei bracci, alternate a quattro torri angolari.
Nè Giulio II nè Bramante erano tuttavia destinati a vedere la conclusione dei lavori, la cui direzione sarebbe toccata di lì a qualche decennio ad un altro genio dell’arte universale, il fiorentino Michelangelo Buonarroti. Fu probabilmente il suo conterraneo Giuliano da Sangallo a raccomandare Michelangelo a Giulio II nel 1505, narrando al Pontefice dell’incredibile talento del giovane Buonarroti, che aveva da poco ultimato la scultura del colossale David. Giulio II ne dovette rimanere alquanto impressionato tanto da convocare a Roma il trentenne Michelangelo, che si vide incaricato della realizzazione della sua monumentale sepoltura, che Giulio avrebbe voluto collocata in San Pietro.
Il primo progetto prevedeva una colossale struttura architettonica isolata nello spazio, composta da tre ordini con una quarantina di statue, dimensionate in scala superiore al naturale. Tuttavia, mentre Michelangelo sceglieva i marmi a Carrara il Papa si volse a nuove imprese quali la riedificazione di San Pietro e la riconquista di Perugia e Bologna. Inoltre il Papa, consigliato forse dal Bramante che non nascondeva la sua rivalità con Michelangelo, era infatti venuto alla conclusione che occuparsi della propria sepoltura fosse di cattivo auspicio. Deluso e amareggiato Michelangelo lasciò Roma per tornarsene a Firenze mandando su tutte le furie il suo ben poco malleabile committente. Va detto che i rapporti tra Michelangelo e Giulio II oscillarono sempre dall’agitato al burrascoso: entrambi avevano caratteri difficili e ben poco inclini al compromesso.
Soltanto dopo molte insistenze – e probabilmente anche minacce – da parte di Giulio II al Gonfaloniere di Giustizia Pier Soderini, Michelangelo accettò di prendere in considerazione l’idea di una riconciliazione con Papa Della Rovere. Quando l’artista giunse finalmente nell’Urbe, Giulio II lo informò della sua volontà di affidargli una nuova, titanica, impresa vale a dire la ri-dipintura della Cappella Sistina, voluta, come dice il nome, dallo zio dello stesso Giulio II, Sisto IV. Inizialmente Michelangelo pose delle obiezioni al progetto asserendo di non essere avvezzo alla tecnica dell’affresco ma da uomo ambizioso finì con l’accettare deciso a misurarsi con i maestri fiorentini come il Ghirlandaio. L’incarico venne formalizzato a Roma tra il marzo e l’aprile 1508 e Michelangelo ricevette un primo acconto di cinquecento ducati. I primi mesi vennero occupati dai disegni preparatori (schizzi e cartoni), la costruzione del ponte e la preparazione delle superfici da affrescare. Il 10 giugno 1508 i lavori dovevano già procedere, poiché il cerimoniere pontificio Paris de Grassis registrò come le cerimonie liturgiche nella cappella erano state disturbate dalla caduta di polvere causata da costruzioni nella parte alta della cappella.
Per poter raggiungere il soffitto e poter quindi lavorare senza nel contempo interrompere le celebrazioni liturgiche nella Cappella Michelangelo realizzò una speciale impalcatura, adattamento di un sistema già in uso per la gittata delle volte. L’artista risolse così il problema dell’altezza e della mobilità, ma non quello della comodità: lo testimoniò lui stesso raffigurandosi nell’atto di dipingere la volta, accanto ad un componimento in versi che, “tradotto” in italiano moderno, recita: “Sono teso come un arco. Mi è già venuto il gozzo, il ventre me lo sento in gola, i, lombi mi sono entrati nella pancia,non vedo dove metto i piedi e il pennello mi gocciola sul viso”. Il lavoro, di per sé massacrante, era aggravato dall’insoddisfazione di sé tipica dell’artista, dai ritardi nel pagamento dei compensi e dalle continue richieste di aiuto da parte dei familiari. Nell’ultimo anno Giulio II divenne sempre più impaziente, obbligando il Buonarroti a un ritmo frenetico per avvicinare la conclusione. Gli ultimi affreschi mostrano uno stile più conciso e con alcuni dettagli semplificati, ma non per questo meno efficaci. Gli affreschi vennero solennemente scoperti e la cappella riaperta il giorno 31 di ottobre del 1512, vigilia della festa di Ognissanti.
Giulio II Della Rovere morì meno di quattro mesi dopo, il 21 febbraio 1513, non ancora settantenne e dopo quasi dieci anni di pontificato. Poco tempo prima, durante il Carnevale di Roma, era stato salutato come il “liberatore d’Italia” e probabilmente al momento della sua dipartita era l’uomo più influente d’Europa. Tuttavia di lì a pochissimi anni tutto era destinato a cambiare, per Roma, l’Italia, l’Europa e la Chiesa. Gli immediati successori di Giulio II, i Papi medicei Leone X e Clemente VII avrebbero infatti assistito alla definitiva frantumazione dell’unità religiosa dell’Occidente cristiano in seguito al deflagrare dello scisma luterano. Nello stesso tempo, mentre Roma avrebbe conosciuto uno dei peggiori saccheggi della sua millenaria storia, la disunita Italia degli staterelli regionali avrebbe perso definitivamente la propria libertà, in seguito alla definitiva affermazione dell’egemonia spagnola.
Tra XV e XVI secolo, grosso modo tra l’elezione di Papa Martino V (1417) al termine del Concilio di Costanza e l’inizio della Riforma luterana, durante quel periodo che nei libri di Storia è noto come “Rinascimento”, il Papato tocca l’apice della potenza e dello splendore. Superati i difficili decenni dello Scisma d’Occidente la Santa Sede può finalmente riaffermare il proprio indiscusso primato spirituale su tutto il mondo cristiano, non più insidiata da antipapi pronti a contestare l’autorità del Pontefice regnante. In questo periodo i Papi finirono con l’assomigliare più a uomini di potere che a pastori di anime, non dissimili dagli altri principi laici loro contemporanei preoccupandosi più che della Chiesa, degli interessi temporali dello Stato della Chiesa, inserendosi a pieno titolo nel grande gioco politico e diplomatico dell’epoca.
Tra i maggiori protagonisti della stagione rinascimentale del Papato si trova senza dubbio Giuliano della Rovere, eletto Pontefice nel 1503 col nome di Giulio II e rimasto sul trono di San Pietro per un decennio, fino alla propria morte avvenuta nel 1513. Uomo dotato di una forte personalità e di di un grande carisma, Giulio II non a caso è passato alla Storia coi soprannomi di “Papa guerriero” e “Papa terribile” sia per i frequenti scatti d’ira che ne caratterizzavano il carattere sia per la spiccata propensione all’uso della forza armata in difesa degli interessi della Chiesa. Tuttavia Giulio II fu un vero “Papa-Re” non solo per la sue doti di condottiero ma anche per il suo generoso mecenatismo. Papa Della Rovere infatti non badò a spese per abbellire Roma, che sotto il suo pontificato divenne uno dei principali centri del Rinascimento italiano, in grado di rivaleggiare per magnificenza con la Firenze medicea.
Questo Papa collerico e spendaccione nacque il 5 dicembre 1443 in quel di Albisola (cittadina oggi divisa in due comuni distinti, Albisola Superiore e Albissola Marina, entrambi in provincia di Savona) nell’allora Repubblica di Genova. Battezzato col nome di Giuliano, il futuro Papa era il primogenito del nobiluomo savonese Raffaello Della Rovere e di sua moglie Teodora di Giovanni Manirola, donna di origini greche.
A giocare un ruolo cruciale nella formazione del ragazzo contribuì il fratello maggiore del padre, suo zio Francesco Della Rovere. Membro dell’Ordine francescano, questi era un abile predicatore e un fine teologo autore, fra l’altro, di un trattato intitolato De Sanguine Christi nel quale, in aperta polemica coi domenicani, sostenne che il sangue di Cristo versato prima della Passione non avrebbe alcun valore salvifico.
Sotto la sicura tutela dello zio Giuliano studiò presso i frati francescani, per poi prendere i voti ed entrare a sua volta nell’ordine. Giuliano pareva quindi destinato a trascorrere l’esistenza tra le mura di un convento se non che nel 1467 suo zio Francesco venne promosso cardinale da Papa Paolo II venendo poi eletto pontefice quattro anni dopo alla morte di quest’ultimo. Tra le prime decisioni del nuovo Papa vi fu infatti quella di nominare il nipote ventottenne dapprima Vescovo di Carpentras e poi cardinale presbitero di San Pietro in Vincoli. Questi furono soltanto di una brillante carriera che avrebbe portato Giuliano sino alla Cattedra di Pietro.
Nel corso dei successivi vent’anni avrebbe infatti accumulato incarichi sempre più prestigiosi: dalla diocesi di Carpentras passò infatti dopo appena un anno a quella di Losanna e poi a quella di Catania, vedendosi assegnare anche l’incarico di amministratore apostolico di Messina. Di lì a poco venne nominato arcivescovo di Avignone e poi legato pontificio dapprima nelle Marche e successivamente a Bologna. Nonostante tutti questi incarichi però Giuliano riusciva evidentemente a trovare anche il tempo per dedicarsi a diversi passatempi: amante della vita all’aria aperta, monsignor Della Rovere amava cavalcare, tirare con l’arco ed era, da buon ligure, un vogatore instancabile. Altre passioni del futuro Papa erano la buona tavola oltre che, fatto tutt’altro che inusuale per un alto prelato del Rinascimento, le donne. Giuliano Della Rovere ebbe diverse amanti e almeno una figlia illegittima, Felice Della Rovere, in seguito maritata con l’aristocratico romano Gian Giordano Orsini, Duca di Bracciano.
In quanto cardinal nipote di Sisto IV, nei tredici anni del pontificato di suo zio, Giuliano guadagnò grande influenza in seno al collegio cardinalizio, un prestigio che non fece che aumentare nei successivi otto anni di regno di Papa Innocenzo VIII (il genovese Giovanni Battista Cybo). A quello stesso periodo risale l’inizio della profonda rivalità con il cardinale catalano Roderic de Borja, meglio conosciuto come Rodrigo Borgia, a sua volta nipote del Pontefice Callisto III. Quando nel 1492 Innocenzo VIII morì, il quarantanovenne monsignor Della Rovere apparve come uno dei candidati più quotati per raccoglierne la successione. Tuttavia il Trono di San Pietro gli fu “scippato” dall’arcinemico Borgia al termine di un conclave viziato da forti sospetti di simonia. Lo scandaloso prelato spagnolo divenne così il nuovo Vicario di Cristo con il nome di Alessandro VI, scelto a quanto pare in omaggio all’antico condottiero macedone. Temendo per la propria incolumità Giuliano fu costretto ad abbandonare l’Urbe per rifugiarsi nella sua diocesi di Ostia, alla foce del Tevere. Da qui poi si imbarcò su una nave diretta a Genova e da lì si trasferì a Parigi alla corte di Carlo VIII di Francia. Fu l’inizio di un esilio che si sarebbe protratto sino al 1503, anno della morte di Papa Borgia. Solo allora Giuliano poté fare ritorno a Roma.
Nel conclave apertosi di lì a poco il cardinale Della Rovere appoggiò la candidatura di monsignor Francesco Todeschini-Piccolomini, il quale in omaggio all’illustre zio e predecessore Pio II (al secolo Enea Silvio Piccolomini, r. 1458-1464) prese il nome di Pio III. Tuttavia il suo pontificato sarebbe stato ricordato come uno dei più brevi della Storia: eletto il 22 settembre, Papa Piccolomini, già colpito da una malattia mortale, si spense infatti il 18 ottobre successivo, dopo appena 26 giorni di regno. In vista dell’imminente votazione Giuliano seppe guadagnarsi il favore degli altri 37 porporati. Fondamentale si dimostrò l’appoggio della fazione borgiana: Giuliano ad esempio promise a Cesare Borgia – figlio di Alessandro VI – la conferma dei possedimenti da lui conquistati durante il pontificato del padre anche se una volta eletto si sarebbe adoperato per abbattere una volta per tutte il “Duca Valentino”, spogliandolo di tutti i suoi titoli per poi farlo arrestare e incarcerare in Castel Sant’Angelo.
Così, al termine del conclave più breve della storia – appena dieci ore nella notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre 1503 – Giuliano Della Rovere venne eletto all’unanimità quale 216° Papa della Chiesa Cattolica. Significativa fu la scelta del nome da parte del neoeletto Pontefice il quale scelse, accorciando il suo nome di battesimo, di chiamarsi Giulio II in omaggio non tanto all’oscuro predecessore Giulio I – vissuto nel IV secolo – quanto piuttosto al Divus Iulius, a Giulio Cesare, a cui Papa Della Rovere volle essere accostato nell’immaginario collettivo fin dalla sfarzosa cerimonia dell’incoronazione durante la quale il corteo passò sotto sette archi trionfali di foggia anticheggiante.
Così come Cesare era stato il principale artefice della grandezza dell’antica Roma, così Giulio II si proponeva di portare la Roma pontificia verso nuove altezze. Tra i primi obbiettivi di Giulio II vi fu infatti quello di riaffermare il potere papale sui territori della Chiesa. Lo Stato, o meglio gli Stati, Pontifici erano infatti composti da una galassia di principati e signorie i cui titolari affermavano di governare in nome di Roma pur comportandosi nei fatti come dei sovrani indipendenti. Per ricondurre all’obbedienza i suoi riottosi vassalli Giulio II non esitò a ricorrere a metodi ben poco cristiani, primo fra tutti l’uso spregiudicato della forza armata. Del resto di che pasta fosse fatto, Papa Della Rovere lo aveva già dimostrato quando, ancora cardinale, nel 1474 aveva assalito armi in pugno la ribelle Todi in nome di suo zio Sisto IV. Tale passione di Giulio II per la vita militare ha lasciato un’eredità duratura: fu lui a fondare la celeberrima Guardia Svizzera Pontificia, attraverso l’arruolamento del primo contingente di 150 mercenari elvetici che giunsero a Roma il 22 gennaio 1506 al comando del capitano Kaspar von Silenen, del Canton d’Uri.
Nell’agosto dello stesso anno il Papa annunciò in concistoro ai cardinali che i tempi erano maturi per la riconquista di Perugia, allora sotto il controllo di Giampaolo Baglioni. Il 26 agosto il seguito papale si mise in marcia con in testa ovviamente Giulio II e il Santissimo Sacramento racchiuso in un ostensorio. Con la mediazione del cardinale Antonio Ferrero e del Duca di Urbino Guidobaldo da Montefeltro, Giampaolo Baglioni accettò di sottomettersi al Papa accettando la presenza stabile di un legato pontificio a Perugia, dove Giulio II entrò il 13 settembre 1506. Rafforzato dai soldati perugini e dai rinforzi messi a disposizione da Luigi XII di Francia, il contingente pontificio si preparò a puntare su Bologna. Il 2 novembre mentre Giulio II e il suo seguito si trovano a Imola giunse la notizia che il signore di Bologna, Giovanni II Bentivoglio, era fuggito a Milano sotto la protezione del Re di Francia. L’11 novembre 1506 Papa Della Rovere poté così fare il suo ingresso nel capoluogo felsineo.
Restava solamente un ostacolo alla piena riaffermazione del potere temporale della Santa Sede sui territori pontifici e questo era costituito da Venezia. Tra la metà del XV e l’inizio del XVI secolo la Serenissima aveva infatti allargato la propria sfera di influenza occupando i centri di Ravenna, Rimini, Cesena e Faenza. Giulio II aveva cercato una soluzione diplomatica, chiedendo a Venezia la restituzione delle città romagnole conquistate. La Repubblica, nonostante si fosse mostrata disposta a riconoscere la sovranità papale sulle città della costa romagnola e a versare un tributo annuale a Giulio II, non aveva nessuna intenzione di cederle. Il rifiuto della Serenissima spinse il pontefice a formare una coalizione anti veneziana insieme con la Francia – interessata al ottenere il controllo della Lombardia orientale, sotto il controllo veneziano – e con l’Imperatore Massimiliano I d’Asburgo. La triplice alleanza fu siglata il 22 settembre 1504 a Blois in Francia ma la guerra fu temporaneamente evitata dall’atteggiamento conciliante di Venezia, che accettò di trattare con il pontefice cedendogli nel 1505 alcune città minori della Romagna. Due anni dopo, riconquistate Perugia e Bologna, Giulio II ingiunse nuovamente alla Serenissima di cedere i territori romagnoli ma ottenne un secco diniego da parte del Senato veneziano.
La guerra con Venezia scoppiò infine quando, a metà marzo del 1508, la Serenissima nominò il proprio candidato alla vacante Diocesi di Vicenza, un atto che Giulio II considerò una provocazione. Nel 1508 venne pertanto costituita la Lega di Cambrai, nella quale il Papa, il Re di Francia e l’Imperatore si unirono per distruggere Venezia e spartirsene le spoglie assieme al re d’Ungheria e ai Duchi di Ferrara, Mantova e Savoia. Sebbene, di fronte al pericolo incombente, Venezia si offrisse il 4 aprile 1509 di restituire Faenza e Rimini allo Stato della Chiesa, il 27 aprile Giulio II lanciò la scomunica sulla Serenissima e nominò il Duca di Ferrara Alfonso d’Este Gonfaloniere di Santa Romana Chiesa, ossia comandante in capo delle truppe pontificie. Intanto il 15 aprile 1509, Luigi XII lasciò Milano a capo di un esercito francese e si mosse rapidamente in territorio veneziano. In risposta la Serenissima arruolò un esercito mercenario affidandone il comando ai condottieri Bartolomeo d’Alviano e Nicolò Orsini di Pitigliano. Il 14 maggio 1509 le truppe francesi si scontrarono con quelle veneziane nella battaglia di Agnadello, in provincia di Cremona, riportando una grande vittoria. Venezia fu allora costretta ad abbandonare i propri possedimenti in Terraferma per concentrarsi sulla difesa della Laguna.
L’affermazione del potere francese su tutta l’Italia settentrionale non più controbilanciato da Venezia, finì però col destare non poche preoccupazioni ai vari principi che ben si guardarono dal liquidare completamente la Serenissima. Anzi, entrato in urto con il sovrano francese, nel 1510 Giulio II ritirò la scomunica contro Venezia in cambio della cessione della Romagna da parte della Serenissima. Di più: il Papa e Venezia giunsero a stipulare una vera e propria alleanza in funzione antifrancese.  Il motto di Giulio II divenne allora “fuori i barbari!”. Mentre le truppe della Serenissima riprendevano il controllo del Veneto, il pontefice conquistò Modena, Reggio Emilia, Parma e Piacenza. Il 20 gennaio 1511 Giulio II prese parte in prima persona – all’età di sessantotto anni! – alla presa della fortezza di Mirandola, tenuta dagli Estensi di Ferrara alleati dei Francesi, evitando una palla di cannone e scalando le mura della cittadella nonostante una forte nevicata.
Nell’ottobre di quello stesso anno il Papa diede vita ad una vera e propria Lega Santa che vide l’adesione, oltre che naturalmente di Venezia, anche di Ferdinando il Cattolico, di Massimiliano d’Asburgo, dei Cantoni svizzeri e persino del Re d’Inghilterra Enrico VIII. Il Papa giunse a giurare che non si sarebbe più tagliato la barba fino a quando l’ultimo soldato francese non fosse stato ricacciato al di là delle Alpi. L’11 aprile 1512, si svolse la violentissima battaglia di Ravenna, nella quale le forze francesi sconfissero l’armata ispano-pontificia guidata da Raimondo de Cardona e Fabrizio Colonna. Per la Francia si trattò, comunque, di una vittoria pirrica: tra le file transalpine cadde anche il brillante generale Gaston de Foix, detto la “Folgore d’Italia”. Minacciati da un nuovo esercito svizzero reclutato dal Papa, i francesi furono costretti a evacuare la Lombardia mentre Giulio II, al culmine del potere e della gloria, convocò un grande congresso diplomatico a Mantova nel quale venne discusso il nuovo assetto politico della Penisola: lo Stato Pontificio inglobò Piacenza, Reggio Emilia, Parma e Bologna. Genova riacquistò la propria autonomia, mentre Milano venne assegnata a Massimiliano Sforza, figlio del Duca Ludovico il Moro mentre a Firenze tornarono a dominare i Medici.
Ma, come abbiamo detto in apertura, Giulio II non si distinse solo per la propensione alle soluzioni militari delle questioni internazionali. La fama del Papa è infatti indissolubilmente legata ai progetti artistici che portò avanti, facendosi patrono di alcuni tra più grandi artisti di sempre quali Bramante, Michelangelo e Raffaello, e offrendo loro la possibilità di creare opere che sono tuttora annoverate tra i capolavori dell’arte occidentale. Dietro i suoi slanci da mecenate è però sempre presente un saldo intreccio di politica e arte, legato ai progetti di renovatio dell’Urbe, sia sul piano monumentale che politico, nell’obiettivo di restituire a Roma e all’autorità papale la grandezza del passato imperiale.
Al principio del 1506 Giulio II prese l’ardita decisione di abbattere l’antica Basilica di San Pietro in Vaticano, risalente ai tempi dell’Imperatore Costantino, affidandone i lavori a Donato Bramante, giunto a Roma alcuni anni prima in seguito alla caduta del suo precedente “datore di lavoro”, il Duca di Milano Ludovico il Moro. L’architetto marchigiano aveva già curato per conto del pontefice il nuovo assetto viario di Roma, realizzato con l’apertura di Via Giulia e l’allungamento di Via della Lungara, che da Piazza della Rovere conduce a Porta Settimania. Bramante, nominato sovrintendente generale delle fabbriche papali, progettò una San Pietro dalla pianta a croce greca – poi modificata a croce latina – con un’enorme cupola emisferica centrale e quattro cupole minori alle estremità dei bracci, alternate a quattro torri angolari.
Nè Giulio II nè Bramante erano tuttavia destinati a vedere la conclusione dei lavori, la cui direzione sarebbe toccata di lì a qualche decennio ad un altro genio dell’arte universale, il fiorentino Michelangelo Buonarroti. Fu probabilmente il suo conterraneo Giuliano da Sangallo a raccomandare Michelangelo a Giulio II nel 1505, narrando al Pontefice dell’incredibile talento del giovane Buonarroti, che aveva da poco ultimato la scultura del colossale David. Giulio II ne dovette rimanere alquanto impressionato tanto da convocare a Roma il trentenne Michelangelo, che si vide incaricato della realizzazione della sua monumentale sepoltura, che Giulio avrebbe voluto collocata in San Pietro.
Il primo progetto prevedeva una colossale struttura architettonica isolata nello spazio, composta da tre ordini con una quarantina di statue, dimensionate in scala superiore al naturale. Tuttavia, mentre Michelangelo sceglieva i marmi a Carrara il Papa si volse a nuove imprese quali la riedificazione di San Pietro e la riconquista di Perugia e Bologna. Inoltre il Papa, consigliato forse dal Bramante che non nascondeva la sua rivalità con Michelangelo, era infatti venuto alla conclusione che occuparsi della propria sepoltura fosse di cattivo auspicio. Deluso e amareggiato Michelangelo lasciò Roma per tornarsene a Firenze mandando su tutte le furie il suo ben poco malleabile committente. Va detto che i rapporti tra Michelangelo e Giulio II oscillarono sempre dall’agitato al burrascoso: entrambi avevano caratteri difficili e ben poco inclini al compromesso.
Soltanto dopo molte insistenze – e probabilmente anche minacce – da parte di Giulio II al Gonfaloniere di Giustizia Pier Soderini, Michelangelo accettò di prendere in considerazione l’idea di una riconciliazione con Papa Della Rovere. Quando l’artista giunse finalmente nell’Urbe, Giulio II lo informò della sua volontà di affidargli una nuova, titanica, impresa vale a dire la ri-dipintura della Cappella Sistina, voluta, come dice il nome, dallo zio dello stesso Giulio II, Sisto IV. Inizialmente Michelangelo pose delle obiezioni al progetto asserendo di non essere avvezzo alla tecnica dell’affresco ma da uomo ambizioso finì con l’accettare deciso a misurarsi con i maestri fiorentini come il Ghirlandaio. L’incarico venne formalizzato a Roma tra il marzo e l’aprile 1508 e Michelangelo ricevette un primo acconto di cinquecento ducati. I primi mesi vennero occupati dai disegni preparatori (schizzi e cartoni), la costruzione del ponte e la preparazione delle superfici da affrescare. Il 10 giugno 1508 i lavori dovevano già procedere, poiché il cerimoniere pontificio Paris de Grassis registrò come le cerimonie liturgiche nella cappella erano state disturbate dalla caduta di polvere causata da costruzioni nella parte alta della cappella.
Per poter raggiungere il soffitto e poter quindi lavorare senza nel contempo interrompere le celebrazioni liturgiche nella Cappella Michelangelo realizzò una speciale impalcatura, adattamento di un sistema già in uso per la gittata delle volte. L’artista risolse così il problema dell’altezza e della mobilità, ma non quello della comodità: lo testimoniò lui stesso raffigurandosi nell’atto di dipingere la volta, accanto ad un componimento in versi che, “tradotto” in italiano moderno, recita: “Sono teso come un arco. Mi è già venuto il gozzo, il ventre me lo sento in gola, i, lombi mi sono entrati nella pancia,non vedo dove metto i piedi e il pennello mi gocciola sul viso”. Il lavoro, di per sé massacrante, era aggravato dall’insoddisfazione di sé tipica dell’artista, dai ritardi nel pagamento dei compensi e dalle continue richieste di aiuto da parte dei familiari. Nell’ultimo anno Giulio II divenne sempre più impaziente, obbligando il Buonarroti a un ritmo frenetico per avvicinare la conclusione. Gli ultimi affreschi mostrano uno stile più conciso e con alcuni dettagli semplificati, ma non per questo meno efficaci. Gli affreschi vennero solennemente scoperti e la cappella riaperta il giorno 31 di ottobre del 1512, vigilia della festa di Ognissanti.
Giulio II Della Rovere morì meno di quattro mesi dopo, il 21 febbraio 1513, non ancora settantenne e dopo quasi dieci anni di pontificato. Poco tempo prima, durante il Carnevale di Roma, era stato salutato come il “liberatore d’Italia” e probabilmente al momento della sua dipartita era l’uomo più influente d’Europa. Tuttavia di lì a pochissimi anni tutto era destinato a cambiare, per Roma, l’Italia, l’Europa e la Chiesa. Gli immediati successori di Giulio II, i Papi medicei Leone X e Clemente VII avrebbero infatti assistito alla definitiva frantumazione dell’unità religiosa dell’Occidente cristiano in seguito al deflagrare dello scisma luterano. Nello stesso tempo, mentre Roma avrebbe conosciuto uno dei peggiori saccheggi della sua millenaria storia, la disunita Italia degli staterelli regionali avrebbe perso definitivamente la propria libertà, in seguito alla definitiva affermazione dell’egemonia spagnola.


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