Giulio II, il Papa guerriero
Tra
XV e XVI secolo, grosso modo tra l’elezione di Papa Martino V
(1417) al termine del Concilio di Costanza e l’inizio della Riforma
luterana, durante quel periodo che nei libri di Storia è noto come
“Rinascimento”, il Papato tocca l’apice della potenza e dello
splendore. Superati i difficili decenni dello Scisma d’Occidente la
Santa Sede può finalmente riaffermare il proprio indiscusso primato
spirituale su tutto il mondo cristiano, non più insidiata da
antipapi pronti a contestare l’autorità del Pontefice regnante. In
questo periodo i Papi finirono con l’assomigliare più a uomini di
potere che a pastori di anime, non dissimili dagli altri principi
laici loro contemporanei preoccupandosi più che della Chiesa, degli
interessi temporali dello Stato della Chiesa, inserendosi a pieno
titolo nel grande gioco politico e diplomatico dell’epoca.
Tra
i maggiori protagonisti della stagione rinascimentale del Papato si
trova senza dubbio Giuliano della Rovere, eletto Pontefice nel 1503
col nome di Giulio II e rimasto sul trono di San Pietro per un
decennio, fino alla propria morte avvenuta nel 1513. Uomo dotato di
una forte personalità e di di un grande carisma, Giulio II non a
caso è passato alla Storia coi soprannomi di “Papa guerriero” e
“Papa terribile” sia per i frequenti scatti d’ira che ne
caratterizzavano il carattere sia per la spiccata propensione all’uso
della forza armata in difesa degli interessi della Chiesa. Tuttavia
Giulio II fu un vero “Papa-Re” non solo per la sue doti di
condottiero ma anche per il suo generoso mecenatismo. Papa Della
Rovere infatti non badò a spese per abbellire Roma, che sotto il suo
pontificato divenne uno dei principali centri del Rinascimento
italiano, in grado di rivaleggiare per magnificenza con la Firenze
medicea.
Questo
Papa collerico e spendaccione nacque il 5 dicembre 1443 in quel di
Albisola (cittadina oggi divisa in due comuni distinti, Albisola
Superiore e Albissola Marina, entrambi in provincia di Savona)
nell’allora Repubblica di Genova. Battezzato col nome di Giuliano,
il futuro Papa era il primogenito del nobiluomo savonese Raffaello
Della Rovere e di sua moglie Teodora di Giovanni Manirola, donna di
origini greche.
A
giocare un ruolo cruciale nella formazione del ragazzo contribuì il
fratello maggiore del padre, suo zio Francesco Della Rovere. Membro
dell’Ordine francescano, questi era un abile predicatore e un fine
teologo autore, fra l’altro, di un trattato intitolato De
Sanguine Christi nel
quale, in aperta polemica coi domenicani, sostenne che il sangue di
Cristo versato prima della Passione non avrebbe alcun valore
salvifico.
Sotto
la sicura tutela dello zio Giuliano studiò presso i frati
francescani, per poi prendere i voti ed entrare a sua volta
nell’ordine. Giuliano pareva quindi destinato a trascorrere
l’esistenza tra le mura di un convento se non che nel 1467 suo zio
Francesco venne promosso cardinale da Papa Paolo II venendo poi
eletto pontefice quattro anni dopo alla morte di quest’ultimo. Tra
le prime decisioni del nuovo Papa vi fu infatti quella di nominare il
nipote ventottenne dapprima Vescovo di Carpentras e poi cardinale
presbitero di San Pietro in Vincoli. Questi furono soltanto di una
brillante carriera che avrebbe portato Giuliano sino alla Cattedra di
Pietro.
Nel
corso dei successivi vent’anni avrebbe infatti accumulato incarichi
sempre più prestigiosi: dalla diocesi di Carpentras passò infatti
dopo appena un anno a quella di Losanna e poi a quella di Catania,
vedendosi assegnare anche l’incarico di amministratore apostolico
di Messina. Di lì a poco venne nominato arcivescovo di Avignone e
poi legato pontificio dapprima nelle Marche e successivamente a
Bologna. Nonostante tutti questi incarichi però Giuliano riusciva
evidentemente a trovare anche il tempo per dedicarsi a diversi
passatempi: amante della vita all’aria aperta, monsignor Della
Rovere amava cavalcare, tirare con l’arco ed era, da buon ligure,
un vogatore instancabile. Altre passioni del futuro Papa erano la
buona tavola oltre che, fatto tutt’altro che inusuale per un alto
prelato del Rinascimento, le donne. Giuliano Della Rovere ebbe
diverse amanti e almeno una figlia illegittima, Felice Della Rovere,
in seguito maritata con l’aristocratico romano Gian Giordano
Orsini, Duca di Bracciano.
In
quanto cardinal nipote di Sisto IV, nei tredici anni del pontificato
di suo zio, Giuliano guadagnò grande influenza in seno al collegio
cardinalizio, un prestigio che non fece che aumentare nei successivi
otto anni di regno di Papa Innocenzo VIII (il genovese Giovanni
Battista Cybo). A quello stesso periodo risale l’inizio della
profonda rivalità con il cardinale catalano Roderic de Borja, meglio
conosciuto come Rodrigo Borgia, a sua volta nipote del Pontefice
Callisto III. Quando nel 1492 Innocenzo VIII morì, il
quarantanovenne monsignor Della Rovere apparve come uno dei candidati
più quotati per raccoglierne la successione. Tuttavia il Trono di
San Pietro gli fu “scippato” dall’arcinemico Borgia al termine
di un conclave viziato da forti sospetti di simonia. Lo scandaloso
prelato spagnolo divenne così il nuovo Vicario di Cristo con il nome
di Alessandro VI, scelto a quanto pare in omaggio all’antico
condottiero macedone. Temendo per la propria incolumità Giuliano fu
costretto ad abbandonare l’Urbe per rifugiarsi nella sua diocesi di
Ostia, alla foce del Tevere. Da qui poi si imbarcò su una nave
diretta a Genova e da lì si trasferì a Parigi alla corte di Carlo
VIII di Francia. Fu l’inizio di un esilio che si sarebbe protratto
sino al 1503, anno della morte di Papa Borgia. Solo allora Giuliano
poté fare ritorno a Roma.
Nel
conclave apertosi di lì a poco il cardinale Della Rovere appoggiò
la candidatura di monsignor Francesco Todeschini-Piccolomini, il
quale in omaggio all’illustre zio e predecessore Pio II (al secolo
Enea Silvio Piccolomini, r. 1458-1464) prese il nome di Pio III.
Tuttavia il suo pontificato sarebbe stato ricordato come uno dei più
brevi della Storia: eletto il 22 settembre, Papa Piccolomini, già
colpito da una malattia mortale, si spense infatti il 18 ottobre
successivo, dopo appena 26 giorni di regno. In vista dell’imminente
votazione Giuliano seppe guadagnarsi il favore degli altri 37
porporati. Fondamentale si dimostrò l’appoggio della fazione
borgiana: Giuliano ad esempio promise a Cesare Borgia – figlio di
Alessandro VI – la conferma dei possedimenti da lui conquistati
durante il pontificato del padre anche se una volta eletto si sarebbe
adoperato per abbattere una volta per tutte il “Duca Valentino”,
spogliandolo di tutti i suoi titoli per poi farlo arrestare e
incarcerare in Castel Sant’Angelo.
Così,
al termine del conclave più breve della storia – appena dieci ore
nella notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre 1503 – Giuliano
Della Rovere venne eletto all’unanimità quale 216° Papa della
Chiesa Cattolica. Significativa fu la scelta del nome da parte del
neoeletto Pontefice il quale scelse, accorciando il suo nome di
battesimo, di chiamarsi Giulio II in omaggio non tanto all’oscuro
predecessore Giulio I – vissuto nel IV secolo – quanto piuttosto
al Divus
Iulius,
a Giulio Cesare, a cui Papa Della Rovere volle essere accostato
nell’immaginario collettivo fin dalla sfarzosa cerimonia
dell’incoronazione durante la quale il corteo passò sotto sette
archi trionfali di foggia anticheggiante.
Così
come Cesare era stato il principale artefice della grandezza
dell’antica Roma, così Giulio II si proponeva di portare la Roma
pontificia verso nuove altezze. Tra i primi obbiettivi di Giulio II
vi fu infatti quello di riaffermare il potere papale sui territori
della Chiesa. Lo Stato, o meglio gli Stati, Pontifici erano infatti
composti da una galassia di principati e signorie i cui titolari
affermavano di governare in nome di Roma pur comportandosi nei fatti
come dei sovrani indipendenti. Per ricondurre all’obbedienza i suoi
riottosi vassalli Giulio II non esitò a ricorrere a metodi ben poco
cristiani, primo fra tutti l’uso spregiudicato della forza armata.
Del resto di che pasta fosse fatto, Papa Della Rovere lo aveva già
dimostrato quando, ancora cardinale, nel 1474 aveva assalito armi in
pugno la ribelle Todi in nome di suo zio Sisto IV. Tale passione di
Giulio II per la vita militare ha lasciato un’eredità duratura: fu
lui a fondare la celeberrima Guardia Svizzera Pontificia, attraverso
l’arruolamento del primo contingente di 150 mercenari elvetici che
giunsero a Roma il 22 gennaio 1506 al comando del capitano Kaspar
von Silenen, del Canton d’Uri.
Nell’agosto
dello stesso anno il Papa annunciò in concistoro ai cardinali che i
tempi erano maturi per la riconquista di Perugia, allora sotto il
controllo di Giampaolo Baglioni. Il 26 agosto il seguito papale si
mise in marcia con in testa ovviamente Giulio II e il Santissimo
Sacramento racchiuso in un ostensorio. Con la mediazione del
cardinale Antonio Ferrero e del Duca di Urbino Guidobaldo da
Montefeltro, Giampaolo Baglioni accettò di sottomettersi al Papa
accettando la presenza stabile di un legato pontificio a Perugia,
dove Giulio II entrò il 13 settembre 1506. Rafforzato dai soldati
perugini e dai rinforzi messi a disposizione da Luigi XII di Francia,
il contingente pontificio si preparò a puntare su Bologna. Il 2
novembre mentre Giulio II e il suo seguito si trovano a Imola giunse
la notizia che il signore di Bologna, Giovanni II Bentivoglio, era
fuggito a Milano sotto la protezione del Re di Francia. L’11
novembre 1506 Papa Della Rovere poté così fare il suo ingresso nel
capoluogo felsineo.
Restava
solamente un ostacolo alla piena riaffermazione del potere temporale
della Santa Sede sui territori pontifici e questo era costituito da
Venezia. Tra la metà del XV e l’inizio del XVI secolo la
Serenissima aveva infatti allargato la propria sfera di influenza
occupando i centri di Ravenna, Rimini, Cesena e Faenza. Giulio II
aveva cercato una soluzione diplomatica, chiedendo a Venezia la
restituzione delle città romagnole conquistate. La Repubblica,
nonostante si fosse mostrata disposta a riconoscere la sovranità
papale sulle città della costa romagnola e a versare un tributo
annuale a Giulio II, non aveva nessuna intenzione di cederle. Il
rifiuto della Serenissima spinse il pontefice a formare una
coalizione anti veneziana insieme con la Francia – interessata al
ottenere il controllo della Lombardia orientale, sotto il controllo
veneziano – e con l’Imperatore Massimiliano I d’Asburgo. La
triplice alleanza fu siglata il 22 settembre 1504 a Blois in Francia
ma la guerra fu temporaneamente evitata dall’atteggiamento
conciliante di Venezia, che accettò di trattare con il pontefice
cedendogli nel 1505 alcune città minori della Romagna. Due anni
dopo, riconquistate Perugia e Bologna, Giulio II ingiunse nuovamente
alla Serenissima di cedere i territori romagnoli ma ottenne un secco
diniego da parte del Senato veneziano.
La
guerra con Venezia scoppiò infine quando, a metà marzo del 1508, la
Serenissima nominò il proprio candidato alla vacante Diocesi di
Vicenza, un atto che Giulio II considerò una provocazione. Nel 1508
venne pertanto costituita la Lega di Cambrai, nella quale
il Papa, il Re di Francia e l’Imperatore si unirono per
distruggere Venezia e spartirsene le spoglie assieme al re d’Ungheria
e ai Duchi di Ferrara, Mantova e Savoia. Sebbene, di fronte al
pericolo incombente, Venezia si offrisse il 4 aprile 1509 di
restituire Faenza e Rimini allo Stato della Chiesa, il 27 aprile
Giulio II lanciò la scomunica sulla Serenissima e nominò
il Duca di Ferrara Alfonso d’Este Gonfaloniere di Santa Romana
Chiesa, ossia comandante in capo delle truppe pontificie. Intanto il
15 aprile 1509, Luigi XII lasciò Milano a capo di un esercito
francese e si mosse rapidamente in territorio veneziano. In risposta
la Serenissima arruolò un esercito mercenario affidandone il comando
ai condottieri Bartolomeo d’Alviano e Nicolò Orsini di Pitigliano.
Il 14 maggio 1509 le truppe francesi si scontrarono con quelle
veneziane nella battaglia di Agnadello, in provincia di Cremona,
riportando una grande vittoria. Venezia fu allora costretta ad
abbandonare i propri possedimenti in Terraferma per concentrarsi
sulla difesa della Laguna.
L’affermazione
del potere francese su tutta l’Italia settentrionale non più
controbilanciato da Venezia, finì però col destare non poche
preoccupazioni ai vari principi che ben si guardarono dal liquidare
completamente la Serenissima. Anzi, entrato in urto con il sovrano
francese, nel 1510 Giulio II ritirò la scomunica contro Venezia in
cambio della cessione della Romagna da parte della Serenissima. Di
più: il Papa e Venezia giunsero a stipulare una vera e propria
alleanza in funzione antifrancese. Il motto di Giulio II
divenne allora “fuori i barbari!”. Mentre le truppe della
Serenissima riprendevano il controllo del Veneto, il pontefice
conquistò Modena, Reggio Emilia, Parma e Piacenza. Il 20 gennaio
1511 Giulio II prese parte in prima persona – all’età di
sessantotto anni! – alla presa della fortezza di Mirandola,
tenuta dagli Estensi di Ferrara alleati dei Francesi, evitando una
palla di cannone e scalando le mura della cittadella nonostante una
forte nevicata.
Nell’ottobre
di quello stesso anno il Papa diede vita ad una vera e propria Lega
Santa che vide l’adesione, oltre che naturalmente di Venezia, anche
di Ferdinando il Cattolico, di Massimiliano d’Asburgo, dei Cantoni
svizzeri e persino del Re d’Inghilterra Enrico VIII. Il Papa giunse
a giurare che non si sarebbe più tagliato la barba fino a quando
l’ultimo soldato francese non fosse stato ricacciato al di là
delle Alpi. L’11 aprile 1512, si svolse la violentissima battaglia
di Ravenna, nella quale le forze francesi sconfissero l’armata
ispano-pontificia guidata da Raimondo de Cardona e Fabrizio Colonna.
Per la Francia si trattò, comunque, di una vittoria pirrica: tra le
file transalpine cadde anche il brillante generale Gaston de Foix,
detto la “Folgore d’Italia”. Minacciati da un nuovo esercito
svizzero reclutato dal Papa, i francesi furono costretti a evacuare
la Lombardia mentre Giulio II, al culmine del potere e della gloria,
convocò un grande congresso diplomatico a Mantova nel quale venne
discusso il nuovo assetto politico della Penisola: lo Stato
Pontificio inglobò Piacenza, Reggio Emilia, Parma e Bologna. Genova
riacquistò la propria autonomia, mentre Milano venne assegnata a
Massimiliano Sforza, figlio del Duca Ludovico il Moro mentre a
Firenze tornarono a dominare i Medici.
Ma,
come abbiamo detto in apertura, Giulio II non si distinse solo per la
propensione alle soluzioni militari delle questioni internazionali.
La fama del Papa è infatti indissolubilmente legata ai progetti
artistici che portò avanti, facendosi patrono di alcuni tra più
grandi artisti di sempre quali Bramante, Michelangelo e Raffaello, e
offrendo loro la possibilità di creare opere che sono tuttora
annoverate tra i capolavori dell’arte occidentale. Dietro i suoi
slanci da mecenate è però sempre presente un saldo intreccio di
politica e arte, legato ai progetti di renovatio dell’Urbe,
sia sul piano monumentale che politico, nell’obiettivo di
restituire a Roma e all’autorità papale la grandezza del passato
imperiale.
Al
principio del 1506 Giulio II prese l’ardita decisione di abbattere
l’antica Basilica di San Pietro in Vaticano, risalente ai tempi
dell’Imperatore Costantino, affidandone i lavori a Donato Bramante,
giunto a Roma alcuni anni prima in seguito alla caduta del suo
precedente “datore di lavoro”, il Duca di Milano Ludovico il
Moro. L’architetto marchigiano aveva già curato per conto del
pontefice il nuovo assetto viario di Roma, realizzato con l’apertura
di Via Giulia e l’allungamento di Via della Lungara, che da Piazza
della Rovere conduce a Porta Settimania. Bramante, nominato
sovrintendente generale delle fabbriche papali, progettò una San
Pietro dalla pianta a croce greca – poi modificata a croce
latina – con un’enorme cupola emisferica centrale e quattro
cupole minori alle estremità dei bracci, alternate a quattro torri
angolari.
Nè
Giulio II nè Bramante erano tuttavia destinati a vedere la
conclusione dei lavori, la cui direzione sarebbe toccata di lì a
qualche decennio ad un altro genio dell’arte universale, il
fiorentino Michelangelo Buonarroti. Fu probabilmente il suo
conterraneo Giuliano da Sangallo a raccomandare
Michelangelo a Giulio II nel 1505, narrando al Pontefice
dell’incredibile talento del giovane Buonarroti, che aveva da poco
ultimato la scultura del colossale David. Giulio II ne dovette
rimanere alquanto impressionato tanto da convocare a Roma il
trentenne Michelangelo, che si vide incaricato della realizzazione
della sua monumentale sepoltura, che Giulio avrebbe voluto collocata
in San Pietro.
Il
primo progetto prevedeva una colossale struttura architettonica
isolata nello spazio, composta da tre ordini con una quarantina di
statue, dimensionate in scala superiore al naturale. Tuttavia, mentre
Michelangelo sceglieva i marmi a Carrara il Papa si volse a nuove
imprese quali la riedificazione di San Pietro e la riconquista di
Perugia e Bologna. Inoltre il Papa, consigliato forse dal Bramante
che non nascondeva la sua rivalità con Michelangelo, era infatti
venuto alla conclusione che occuparsi della propria sepoltura fosse
di cattivo auspicio. Deluso e amareggiato Michelangelo lasciò Roma
per tornarsene a Firenze mandando su tutte le furie il suo ben poco
malleabile committente. Va detto che i rapporti tra Michelangelo e
Giulio II oscillarono sempre dall’agitato al burrascoso: entrambi
avevano caratteri difficili e ben poco inclini al compromesso.
Soltanto
dopo molte insistenze – e probabilmente anche minacce – da parte
di Giulio II al Gonfaloniere di Giustizia Pier Soderini, Michelangelo
accettò di prendere in considerazione l’idea di una
riconciliazione con Papa Della Rovere. Quando l’artista giunse
finalmente nell’Urbe, Giulio II lo informò della sua volontà di
affidargli una nuova, titanica, impresa vale a dire la ri-dipintura
della Cappella Sistina, voluta, come dice il nome, dallo zio dello
stesso Giulio II, Sisto IV. Inizialmente Michelangelo pose delle
obiezioni al progetto asserendo di non essere avvezzo alla tecnica
dell’affresco ma da uomo ambizioso finì con l’accettare deciso a
misurarsi con i maestri fiorentini come il Ghirlandaio. L’incarico
venne formalizzato a Roma tra il marzo e l’aprile 1508 e
Michelangelo ricevette un primo acconto di cinquecento ducati. I
primi mesi vennero occupati dai disegni preparatori (schizzi e
cartoni), la costruzione del ponte e la preparazione delle superfici
da affrescare. Il 10 giugno 1508 i lavori dovevano già procedere,
poiché il cerimoniere pontificio Paris de Grassis registrò come le
cerimonie liturgiche nella cappella erano state disturbate dalla
caduta di polvere causata da costruzioni nella parte alta della
cappella.
Per
poter raggiungere il soffitto e poter quindi lavorare senza nel
contempo interrompere le celebrazioni liturgiche nella Cappella
Michelangelo realizzò una speciale impalcatura, adattamento di un
sistema già in uso per la gittata delle volte. L’artista risolse
così il problema dell’altezza e della mobilità, ma non quello
della comodità: lo testimoniò lui stesso raffigurandosi nell’atto
di dipingere la volta, accanto ad un componimento in versi che,
“tradotto” in italiano moderno, recita: “Sono teso come un
arco. Mi è già venuto il gozzo, il ventre me lo sento in gola, i,
lombi mi sono entrati nella pancia,non vedo dove metto i piedi e il
pennello mi gocciola sul viso”. Il lavoro, di per sé massacrante,
era aggravato dall’insoddisfazione di sé tipica dell’artista,
dai ritardi nel pagamento dei compensi e dalle continue richieste di
aiuto da parte dei familiari. Nell’ultimo anno Giulio II divenne
sempre più impaziente, obbligando il Buonarroti a un ritmo frenetico
per avvicinare la conclusione. Gli ultimi affreschi mostrano uno
stile più conciso e con alcuni dettagli semplificati, ma non per
questo meno efficaci. Gli affreschi vennero solennemente scoperti e
la cappella riaperta il giorno 31 di ottobre del 1512, vigilia della
festa di Ognissanti.
Giulio
II Della Rovere morì meno di quattro mesi dopo, il 21 febbraio 1513,
non ancora settantenne e dopo quasi dieci anni di pontificato. Poco
tempo prima, durante il Carnevale di Roma, era stato salutato come il
“liberatore d’Italia” e probabilmente al momento della sua
dipartita era l’uomo più influente d’Europa. Tuttavia di lì a
pochissimi anni tutto era destinato a cambiare, per Roma, l’Italia,
l’Europa e la Chiesa. Gli immediati successori di Giulio II, i Papi
medicei Leone X e Clemente VII avrebbero infatti assistito alla
definitiva frantumazione dell’unità religiosa dell’Occidente
cristiano in seguito al deflagrare dello scisma luterano. Nello
stesso tempo, mentre Roma avrebbe conosciuto uno dei peggiori
saccheggi della sua millenaria storia, la disunita Italia degli
staterelli regionali avrebbe perso definitivamente la propria
libertà, in seguito alla definitiva affermazione dell’egemonia
spagnola.
Tra
XV e XVI secolo, grosso modo tra l’elezione di Papa Martino V
(1417) al termine del Concilio di Costanza e l’inizio della Riforma
luterana, durante quel periodo che nei libri di Storia è noto come
“Rinascimento”, il Papato tocca l’apice della potenza e dello
splendore. Superati i difficili decenni dello Scisma d’Occidente la
Santa Sede può finalmente riaffermare il proprio indiscusso primato
spirituale su tutto il mondo cristiano, non più insidiata da
antipapi pronti a contestare l’autorità del Pontefice regnante. In
questo periodo i Papi finirono con l’assomigliare più a uomini di
potere che a pastori di anime, non dissimili dagli altri principi
laici loro contemporanei preoccupandosi più che della Chiesa, degli
interessi temporali dello Stato della Chiesa, inserendosi a pieno
titolo nel grande gioco politico e diplomatico dell’epoca.
Tra
i maggiori protagonisti della stagione rinascimentale del Papato si
trova senza dubbio Giuliano della Rovere, eletto Pontefice nel 1503
col nome di Giulio II e rimasto sul trono di San Pietro per un
decennio, fino alla propria morte avvenuta nel 1513. Uomo dotato di
una forte personalità e di di un grande carisma, Giulio II non a
caso è passato alla Storia coi soprannomi di “Papa guerriero” e
“Papa terribile” sia per i frequenti scatti d’ira che ne
caratterizzavano il carattere sia per la spiccata propensione all’uso
della forza armata in difesa degli interessi della Chiesa. Tuttavia
Giulio II fu un vero “Papa-Re” non solo per la sue doti di
condottiero ma anche per il suo generoso mecenatismo. Papa Della
Rovere infatti non badò a spese per abbellire Roma, che sotto il suo
pontificato divenne uno dei principali centri del Rinascimento
italiano, in grado di rivaleggiare per magnificenza con la Firenze
medicea.
Questo
Papa collerico e spendaccione nacque il 5 dicembre 1443 in quel di
Albisola (cittadina oggi divisa in due comuni distinti, Albisola
Superiore e Albissola Marina, entrambi in provincia di Savona)
nell’allora Repubblica di Genova. Battezzato col nome di Giuliano,
il futuro Papa era il primogenito del nobiluomo savonese Raffaello
Della Rovere e di sua moglie Teodora di Giovanni Manirola, donna di
origini greche.
A
giocare un ruolo cruciale nella formazione del ragazzo contribuì il
fratello maggiore del padre, suo zio Francesco Della Rovere. Membro
dell’Ordine francescano, questi era un abile predicatore e un fine
teologo autore, fra l’altro, di un trattato intitolato De
Sanguine Christi nel
quale, in aperta polemica coi domenicani, sostenne che il sangue di
Cristo versato prima della Passione non avrebbe alcun valore
salvifico.
Sotto
la sicura tutela dello zio Giuliano studiò presso i frati
francescani, per poi prendere i voti ed entrare a sua volta
nell’ordine. Giuliano pareva quindi destinato a trascorrere
l’esistenza tra le mura di un convento se non che nel 1467 suo zio
Francesco venne promosso cardinale da Papa Paolo II venendo poi
eletto pontefice quattro anni dopo alla morte di quest’ultimo. Tra
le prime decisioni del nuovo Papa vi fu infatti quella di nominare il
nipote ventottenne dapprima Vescovo di Carpentras e poi cardinale
presbitero di San Pietro in Vincoli. Questi furono soltanto di una
brillante carriera che avrebbe portato Giuliano sino alla Cattedra di
Pietro.
Nel
corso dei successivi vent’anni avrebbe infatti accumulato incarichi
sempre più prestigiosi: dalla diocesi di Carpentras passò infatti
dopo appena un anno a quella di Losanna e poi a quella di Catania,
vedendosi assegnare anche l’incarico di amministratore apostolico
di Messina. Di lì a poco venne nominato arcivescovo di Avignone e
poi legato pontificio dapprima nelle Marche e successivamente a
Bologna. Nonostante tutti questi incarichi però Giuliano riusciva
evidentemente a trovare anche il tempo per dedicarsi a diversi
passatempi: amante della vita all’aria aperta, monsignor Della
Rovere amava cavalcare, tirare con l’arco ed era, da buon ligure,
un vogatore instancabile. Altre passioni del futuro Papa erano la
buona tavola oltre che, fatto tutt’altro che inusuale per un alto
prelato del Rinascimento, le donne. Giuliano Della Rovere ebbe
diverse amanti e almeno una figlia illegittima, Felice Della Rovere,
in seguito maritata con l’aristocratico romano Gian Giordano
Orsini, Duca di Bracciano.
In
quanto cardinal nipote di Sisto IV, nei tredici anni del pontificato
di suo zio, Giuliano guadagnò grande influenza in seno al collegio
cardinalizio, un prestigio che non fece che aumentare nei successivi
otto anni di regno di Papa Innocenzo VIII (il genovese Giovanni
Battista Cybo). A quello stesso periodo risale l’inizio della
profonda rivalità con il cardinale catalano Roderic de Borja, meglio
conosciuto come Rodrigo Borgia, a sua volta nipote del Pontefice
Callisto III. Quando nel 1492 Innocenzo VIII morì, il
quarantanovenne monsignor Della Rovere apparve come uno dei candidati
più quotati per raccoglierne la successione. Tuttavia il Trono di
San Pietro gli fu “scippato” dall’arcinemico Borgia al termine
di un conclave viziato da forti sospetti di simonia. Lo scandaloso
prelato spagnolo divenne così il nuovo Vicario di Cristo con il nome
di Alessandro VI, scelto a quanto pare in omaggio all’antico
condottiero macedone. Temendo per la propria incolumità Giuliano fu
costretto ad abbandonare l’Urbe per rifugiarsi nella sua diocesi di
Ostia, alla foce del Tevere. Da qui poi si imbarcò su una nave
diretta a Genova e da lì si trasferì a Parigi alla corte di Carlo
VIII di Francia. Fu l’inizio di un esilio che si sarebbe protratto
sino al 1503, anno della morte di Papa Borgia. Solo allora Giuliano
poté fare ritorno a Roma.
Nel
conclave apertosi di lì a poco il cardinale Della Rovere appoggiò
la candidatura di monsignor Francesco Todeschini-Piccolomini, il
quale in omaggio all’illustre zio e predecessore Pio II (al secolo
Enea Silvio Piccolomini, r. 1458-1464) prese il nome di Pio III.
Tuttavia il suo pontificato sarebbe stato ricordato come uno dei più
brevi della Storia: eletto il 22 settembre, Papa Piccolomini, già
colpito da una malattia mortale, si spense infatti il 18 ottobre
successivo, dopo appena 26 giorni di regno. In vista dell’imminente
votazione Giuliano seppe guadagnarsi il favore degli altri 37
porporati. Fondamentale si dimostrò l’appoggio della fazione
borgiana: Giuliano ad esempio promise a Cesare Borgia – figlio di
Alessandro VI – la conferma dei possedimenti da lui conquistati
durante il pontificato del padre anche se una volta eletto si sarebbe
adoperato per abbattere una volta per tutte il “Duca Valentino”,
spogliandolo di tutti i suoi titoli per poi farlo arrestare e
incarcerare in Castel Sant’Angelo.
Così,
al termine del conclave più breve della storia – appena dieci ore
nella notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre 1503 – Giuliano
Della Rovere venne eletto all’unanimità quale 216° Papa della
Chiesa Cattolica. Significativa fu la scelta del nome da parte del
neoeletto Pontefice il quale scelse, accorciando il suo nome di
battesimo, di chiamarsi Giulio II in omaggio non tanto all’oscuro
predecessore Giulio I – vissuto nel IV secolo – quanto piuttosto
al Divus
Iulius,
a Giulio Cesare, a cui Papa Della Rovere volle essere accostato
nell’immaginario collettivo fin dalla sfarzosa cerimonia
dell’incoronazione durante la quale il corteo passò sotto sette
archi trionfali di foggia anticheggiante.
Così
come Cesare era stato il principale artefice della grandezza
dell’antica Roma, così Giulio II si proponeva di portare la Roma
pontificia verso nuove altezze. Tra i primi obbiettivi di Giulio II
vi fu infatti quello di riaffermare il potere papale sui territori
della Chiesa. Lo Stato, o meglio gli Stati, Pontifici erano infatti
composti da una galassia di principati e signorie i cui titolari
affermavano di governare in nome di Roma pur comportandosi nei fatti
come dei sovrani indipendenti. Per ricondurre all’obbedienza i suoi
riottosi vassalli Giulio II non esitò a ricorrere a metodi ben poco
cristiani, primo fra tutti l’uso spregiudicato della forza armata.
Del resto di che pasta fosse fatto, Papa Della Rovere lo aveva già
dimostrato quando, ancora cardinale, nel 1474 aveva assalito armi in
pugno la ribelle Todi in nome di suo zio Sisto IV. Tale passione di
Giulio II per la vita militare ha lasciato un’eredità duratura: fu
lui a fondare la celeberrima Guardia Svizzera Pontificia, attraverso
l’arruolamento del primo contingente di 150 mercenari elvetici che
giunsero a Roma il 22 gennaio 1506 al comando del capitano Kaspar
von Silenen, del Canton d’Uri.
Nell’agosto
dello stesso anno il Papa annunciò in concistoro ai cardinali che i
tempi erano maturi per la riconquista di Perugia, allora sotto il
controllo di Giampaolo Baglioni. Il 26 agosto il seguito papale si
mise in marcia con in testa ovviamente Giulio II e il Santissimo
Sacramento racchiuso in un ostensorio. Con la mediazione del
cardinale Antonio Ferrero e del Duca di Urbino Guidobaldo da
Montefeltro, Giampaolo Baglioni accettò di sottomettersi al Papa
accettando la presenza stabile di un legato pontificio a Perugia,
dove Giulio II entrò il 13 settembre 1506. Rafforzato dai soldati
perugini e dai rinforzi messi a disposizione da Luigi XII di Francia,
il contingente pontificio si preparò a puntare su Bologna. Il 2
novembre mentre Giulio II e il suo seguito si trovano a Imola giunse
la notizia che il signore di Bologna, Giovanni II Bentivoglio, era
fuggito a Milano sotto la protezione del Re di Francia. L’11
novembre 1506 Papa Della Rovere poté così fare il suo ingresso nel
capoluogo felsineo.
Restava
solamente un ostacolo alla piena riaffermazione del potere temporale
della Santa Sede sui territori pontifici e questo era costituito da
Venezia. Tra la metà del XV e l’inizio del XVI secolo la
Serenissima aveva infatti allargato la propria sfera di influenza
occupando i centri di Ravenna, Rimini, Cesena e Faenza. Giulio II
aveva cercato una soluzione diplomatica, chiedendo a Venezia la
restituzione delle città romagnole conquistate. La Repubblica,
nonostante si fosse mostrata disposta a riconoscere la sovranità
papale sulle città della costa romagnola e a versare un tributo
annuale a Giulio II, non aveva nessuna intenzione di cederle. Il
rifiuto della Serenissima spinse il pontefice a formare una
coalizione anti veneziana insieme con la Francia – interessata al
ottenere il controllo della Lombardia orientale, sotto il controllo
veneziano – e con l’Imperatore Massimiliano I d’Asburgo. La
triplice alleanza fu siglata il 22 settembre 1504 a Blois in Francia
ma la guerra fu temporaneamente evitata dall’atteggiamento
conciliante di Venezia, che accettò di trattare con il pontefice
cedendogli nel 1505 alcune città minori della Romagna. Due anni
dopo, riconquistate Perugia e Bologna, Giulio II ingiunse nuovamente
alla Serenissima di cedere i territori romagnoli ma ottenne un secco
diniego da parte del Senato veneziano.
La
guerra con Venezia scoppiò infine quando, a metà marzo del 1508, la
Serenissima nominò il proprio candidato alla vacante Diocesi di
Vicenza, un atto che Giulio II considerò una provocazione. Nel 1508
venne pertanto costituita la Lega di Cambrai, nella quale
il Papa, il Re di Francia e l’Imperatore si unirono per
distruggere Venezia e spartirsene le spoglie assieme al re d’Ungheria
e ai Duchi di Ferrara, Mantova e Savoia. Sebbene, di fronte al
pericolo incombente, Venezia si offrisse il 4 aprile 1509 di
restituire Faenza e Rimini allo Stato della Chiesa, il 27 aprile
Giulio II lanciò la scomunica sulla Serenissima e nominò
il Duca di Ferrara Alfonso d’Este Gonfaloniere di Santa Romana
Chiesa, ossia comandante in capo delle truppe pontificie. Intanto il
15 aprile 1509, Luigi XII lasciò Milano a capo di un esercito
francese e si mosse rapidamente in territorio veneziano. In risposta
la Serenissima arruolò un esercito mercenario affidandone il comando
ai condottieri Bartolomeo d’Alviano e Nicolò Orsini di Pitigliano.
Il 14 maggio 1509 le truppe francesi si scontrarono con quelle
veneziane nella battaglia di Agnadello, in provincia di Cremona,
riportando una grande vittoria. Venezia fu allora costretta ad
abbandonare i propri possedimenti in Terraferma per concentrarsi
sulla difesa della Laguna.
L’affermazione
del potere francese su tutta l’Italia settentrionale non più
controbilanciato da Venezia, finì però col destare non poche
preoccupazioni ai vari principi che ben si guardarono dal liquidare
completamente la Serenissima. Anzi, entrato in urto con il sovrano
francese, nel 1510 Giulio II ritirò la scomunica contro Venezia in
cambio della cessione della Romagna da parte della Serenissima. Di
più: il Papa e Venezia giunsero a stipulare una vera e propria
alleanza in funzione antifrancese. Il motto di Giulio II
divenne allora “fuori i barbari!”. Mentre le truppe della
Serenissima riprendevano il controllo del Veneto, il pontefice
conquistò Modena, Reggio Emilia, Parma e Piacenza. Il 20 gennaio
1511 Giulio II prese parte in prima persona – all’età di
sessantotto anni! – alla presa della fortezza di Mirandola,
tenuta dagli Estensi di Ferrara alleati dei Francesi, evitando una
palla di cannone e scalando le mura della cittadella nonostante una
forte nevicata.
Nell’ottobre
di quello stesso anno il Papa diede vita ad una vera e propria Lega
Santa che vide l’adesione, oltre che naturalmente di Venezia, anche
di Ferdinando il Cattolico, di Massimiliano d’Asburgo, dei Cantoni
svizzeri e persino del Re d’Inghilterra Enrico VIII. Il Papa giunse
a giurare che non si sarebbe più tagliato la barba fino a quando
l’ultimo soldato francese non fosse stato ricacciato al di là
delle Alpi. L’11 aprile 1512, si svolse la violentissima battaglia
di Ravenna, nella quale le forze francesi sconfissero l’armata
ispano-pontificia guidata da Raimondo de Cardona e Fabrizio Colonna.
Per la Francia si trattò, comunque, di una vittoria pirrica: tra le
file transalpine cadde anche il brillante generale Gaston de Foix,
detto la “Folgore d’Italia”. Minacciati da un nuovo esercito
svizzero reclutato dal Papa, i francesi furono costretti a evacuare
la Lombardia mentre Giulio II, al culmine del potere e della gloria,
convocò un grande congresso diplomatico a Mantova nel quale venne
discusso il nuovo assetto politico della Penisola: lo Stato
Pontificio inglobò Piacenza, Reggio Emilia, Parma e Bologna. Genova
riacquistò la propria autonomia, mentre Milano venne assegnata a
Massimiliano Sforza, figlio del Duca Ludovico il Moro mentre a
Firenze tornarono a dominare i Medici.
Ma,
come abbiamo detto in apertura, Giulio II non si distinse solo per la
propensione alle soluzioni militari delle questioni internazionali.
La fama del Papa è infatti indissolubilmente legata ai progetti
artistici che portò avanti, facendosi patrono di alcuni tra più
grandi artisti di sempre quali Bramante, Michelangelo e Raffaello, e
offrendo loro la possibilità di creare opere che sono tuttora
annoverate tra i capolavori dell’arte occidentale. Dietro i suoi
slanci da mecenate è però sempre presente un saldo intreccio di
politica e arte, legato ai progetti di renovatio dell’Urbe,
sia sul piano monumentale che politico, nell’obiettivo di
restituire a Roma e all’autorità papale la grandezza del passato
imperiale.
Al
principio del 1506 Giulio II prese l’ardita decisione di abbattere
l’antica Basilica di San Pietro in Vaticano, risalente ai tempi
dell’Imperatore Costantino, affidandone i lavori a Donato Bramante,
giunto a Roma alcuni anni prima in seguito alla caduta del suo
precedente “datore di lavoro”, il Duca di Milano Ludovico il
Moro. L’architetto marchigiano aveva già curato per conto del
pontefice il nuovo assetto viario di Roma, realizzato con l’apertura
di Via Giulia e l’allungamento di Via della Lungara, che da Piazza
della Rovere conduce a Porta Settimania. Bramante, nominato
sovrintendente generale delle fabbriche papali, progettò una San
Pietro dalla pianta a croce greca – poi modificata a croce
latina – con un’enorme cupola emisferica centrale e quattro
cupole minori alle estremità dei bracci, alternate a quattro torri
angolari.
Nè
Giulio II nè Bramante erano tuttavia destinati a vedere la
conclusione dei lavori, la cui direzione sarebbe toccata di lì a
qualche decennio ad un altro genio dell’arte universale, il
fiorentino Michelangelo Buonarroti. Fu probabilmente il suo
conterraneo Giuliano da Sangallo a raccomandare
Michelangelo a Giulio II nel 1505, narrando al Pontefice
dell’incredibile talento del giovane Buonarroti, che aveva da poco
ultimato la scultura del colossale David. Giulio II ne dovette
rimanere alquanto impressionato tanto da convocare a Roma il
trentenne Michelangelo, che si vide incaricato della realizzazione
della sua monumentale sepoltura, che Giulio avrebbe voluto collocata
in San Pietro.
Il
primo progetto prevedeva una colossale struttura architettonica
isolata nello spazio, composta da tre ordini con una quarantina di
statue, dimensionate in scala superiore al naturale. Tuttavia, mentre
Michelangelo sceglieva i marmi a Carrara il Papa si volse a nuove
imprese quali la riedificazione di San Pietro e la riconquista di
Perugia e Bologna. Inoltre il Papa, consigliato forse dal Bramante
che non nascondeva la sua rivalità con Michelangelo, era infatti
venuto alla conclusione che occuparsi della propria sepoltura fosse
di cattivo auspicio. Deluso e amareggiato Michelangelo lasciò Roma
per tornarsene a Firenze mandando su tutte le furie il suo ben poco
malleabile committente. Va detto che i rapporti tra Michelangelo e
Giulio II oscillarono sempre dall’agitato al burrascoso: entrambi
avevano caratteri difficili e ben poco inclini al compromesso.
Soltanto
dopo molte insistenze – e probabilmente anche minacce – da parte
di Giulio II al Gonfaloniere di Giustizia Pier Soderini, Michelangelo
accettò di prendere in considerazione l’idea di una
riconciliazione con Papa Della Rovere. Quando l’artista giunse
finalmente nell’Urbe, Giulio II lo informò della sua volontà di
affidargli una nuova, titanica, impresa vale a dire la ri-dipintura
della Cappella Sistina, voluta, come dice il nome, dallo zio dello
stesso Giulio II, Sisto IV. Inizialmente Michelangelo pose delle
obiezioni al progetto asserendo di non essere avvezzo alla tecnica
dell’affresco ma da uomo ambizioso finì con l’accettare deciso a
misurarsi con i maestri fiorentini come il Ghirlandaio. L’incarico
venne formalizzato a Roma tra il marzo e l’aprile 1508 e
Michelangelo ricevette un primo acconto di cinquecento ducati. I
primi mesi vennero occupati dai disegni preparatori (schizzi e
cartoni), la costruzione del ponte e la preparazione delle superfici
da affrescare. Il 10 giugno 1508 i lavori dovevano già procedere,
poiché il cerimoniere pontificio Paris de Grassis registrò come le
cerimonie liturgiche nella cappella erano state disturbate dalla
caduta di polvere causata da costruzioni nella parte alta della
cappella.
Per
poter raggiungere il soffitto e poter quindi lavorare senza nel
contempo interrompere le celebrazioni liturgiche nella Cappella
Michelangelo realizzò una speciale impalcatura, adattamento di un
sistema già in uso per la gittata delle volte. L’artista risolse
così il problema dell’altezza e della mobilità, ma non quello
della comodità: lo testimoniò lui stesso raffigurandosi nell’atto
di dipingere la volta, accanto ad un componimento in versi che,
“tradotto” in italiano moderno, recita: “Sono teso come un
arco. Mi è già venuto il gozzo, il ventre me lo sento in gola, i,
lombi mi sono entrati nella pancia,non vedo dove metto i piedi e il
pennello mi gocciola sul viso”. Il lavoro, di per sé massacrante,
era aggravato dall’insoddisfazione di sé tipica dell’artista,
dai ritardi nel pagamento dei compensi e dalle continue richieste di
aiuto da parte dei familiari. Nell’ultimo anno Giulio II divenne
sempre più impaziente, obbligando il Buonarroti a un ritmo frenetico
per avvicinare la conclusione. Gli ultimi affreschi mostrano uno
stile più conciso e con alcuni dettagli semplificati, ma non per
questo meno efficaci. Gli affreschi vennero solennemente scoperti e
la cappella riaperta il giorno 31 di ottobre del 1512, vigilia della
festa di Ognissanti.
Giulio
II Della Rovere morì meno di quattro mesi dopo, il 21 febbraio 1513,
non ancora settantenne e dopo quasi dieci anni di pontificato. Poco
tempo prima, durante il Carnevale di Roma, era stato salutato come il
“liberatore d’Italia” e probabilmente al momento della sua
dipartita era l’uomo più influente d’Europa. Tuttavia di lì a
pochissimi anni tutto era destinato a cambiare, per Roma, l’Italia,
l’Europa e la Chiesa. Gli immediati successori di Giulio II, i Papi
medicei Leone X e Clemente VII avrebbero infatti assistito alla
definitiva frantumazione dell’unità religiosa dell’Occidente
cristiano in seguito al deflagrare dello scisma luterano. Nello
stesso tempo, mentre Roma avrebbe conosciuto uno dei peggiori
saccheggi della sua millenaria storia, la disunita Italia degli
staterelli regionali avrebbe perso definitivamente la propria
libertà, in seguito alla definitiva affermazione dell’egemonia
spagnola.
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