Un esercito marcia sul suo stomaco: l’alimentazione del soldato italiano nella Grande Guerra

Alla vigilia della Grande Guerra l’Italia è un paese povero la cui economia è basata prevalentemente, in alcune zone esclusivamente, sull'agricoltura, con un livello di sviluppo decisamente inferiore alle restanti nazioni europee che avevano iniziato con successo un vero processo di ammodernamento della stessa agricoltura, accompagnato da una crescente industrializzazione. Tanto per fare un esempio nel periodo 1900-1914 l’Italia produceva, 10,5 quintali di grano per ettaro, contro i 22 dell’Inghilterra, i 25 del Belgio e i 28 della Danimarca. Al Sud come al Nord mediamente si mangia poco e male. L'alimentazione della maggior parte della popolazione è costituita da prodotti quali pane, legumi, verdure, formaggio. La carne è riservata a poche occasioni o alle classi più agiate, insieme ad altri prodotti come zucchero e caffè. Di fatto la grande massa popolare vive sulle soglie dell'indigenza: mangia più per sfamarsi che per nutrirsi. In alcune aree della penisola la malnutrizione è un problema serio che ha come conseguenza il diffondersi della pellagra. Ecco allora che l’esultanza di Silvio va inquadrata in un più ampio contesto di miseria generale dove l’esercito assicurava, in ogni caso, una dieta sicuramente più ricca di quella cui erano abituati da civili la maggior parte dei militari di estrazione popolare come il nostro alpino romagnolo. E in Romagna almeno si mangiava: poco, ma si mangiava. Il conflitto imminente andrà a peggiorare ulteriormente la situazione. Perché via via che il conflitto avanzerà divorando uomini e risorse, gli interessi dell'esercito avranno inevitabilmente la precedenza. Il decreto luogotenenziale n. 1053 del 11 luglio 1915 stabilisce un'organizzazione per l'incetta metodica degli animali bovini nel territorio nazionale durante la guerra. Essa comprende una Commissione centrale, con compito essenzialmente direttivo, formata da ufficiali, rappresentanti del Ministero dell'Agricoltura, delle istituzioni agrarie del Regno e della Direzione Generale delle Ferrovie dello Stato e da Commissioni provinciali, incaricate di requisire i bovini e avviarli alle destinazioni previste. ...le Commissioni procurino di conciliare quanto più è possibile gl'interessi dell'agricoltura con quelli dell'Esercito; ma non dimentichino che gl'interessi dell'Esercito hanno e debbono avere nel momento attuale la precedenza, per modo che essi non siano compromessi. Cosicché ancor più dei soldati al fronte, le famiglie italiane soffriranno carestia e malattie causate dalle carenze alimentari.
Ma cosa mangia il soldato italiano? La sua razione giornaliera è distribuita in tre porzioni: colazione, I° rancio e II° rancio. Colazione: rappresenta un mix delle prime colazioni di mezza Italia. La circolare del 1916 stabilisce che mangino fichi secchi o castagne (dai 120 ai 150 gr.), quindi mandorle, noci, nocciole o formaggio (40 gr.), olive o sardine o aringhe (30 gr.) mele fresche (200 gr.). Il Caffè appare solo con una circolare del 1917 (dopo Caporetto); 20 grammi di caffè tostato e 30 grammi di zucchero giornalieri contro 15 gr di caffè e 20 di zucchero che ogni tanto venivano distribuiti. All’inizio del ‘900 i borghesi bevono caffè al mattino, in contrapposizione alla cioccolata della “molle” aristocrazia. Ma il popolo ovviamente NO. Abituati a bere il caffè tutte le mattine, i soldati che tornano a casa, continueranno a farlo. La prima colazione degli italiani è cambiata!! Rancio: qui la faccenda è più complicata. Il rancio della prima guerra mondiale è il risultato di un lungo percorso iniziato nel 1861 e passato attraverso la guerra di Libia. A completamento, a supporto o più spesso in sostituzione del rancio che non arriva, si fa ricorso alle scatolette (oggetto di vera e proprio culto collezionistico tra gli appassionati). Come ho già avuto modo di scrivere3, contengono tonno, alici, sardine, funghi, mortadella e tanto altro ancora. Durante la Grande Guerra vennero distribuite ai soldati circa 230 milioni di scatolette di carne senza considerare il resto, dei quali 168 milioni in gran parte prodotte dagli stabilimenti militari di Casaralta e Scanzano. Le razioni sono di tre tipi e variano da fronte a retrovia, dove si consuma la razione territoriale modificata che contempla meno calorie, mentre al fronte deve essere distribuita la razione normale di guerra e quella invernale di guerra. In alta montagna vengono distribuiti supplementi di lardo, pancetta, latte condensato, mentre al servizio di trincea sono contemplati alcolici, spesso segno inequivocabile dell'imminente assalto in quanto seppure controproducenti in termini di performance, possono coadiuvare uno stato d’animo leggermente più incline a tollerare la paura. Al giorno d’oggi l’approvvigionamento di alcolici ai militari è limitatissimo e il loro consumo durante il servizio è severamente perseguito (esagerazione opposta).
Dopo aver esaminato la quantità cerchiamo di qualificarla in termini di valutazione nutrizionale. Il primo studio serio relativo alla valutazione nutrizionale necessaria al combattente è imputato alla Commissione inter-alleata del gennaio 1918 la quale stabilisce in 4.000 calorie il fabbisogno alimentare giornaliero di un combattente. In quel momento l’Italia è il fanalino di coda con 3.067 calorie contro le 4.466 dei francesi, le 4.193 degli inglesi e le 4.714 degli americani. Sul fronte opposto bene i tedeschi con 4.500, molto peggio, anche se non abbiamo un numero, gli austro ungarici. Dopo Caporetto, gli italiani chiesero insistentemente più grano agli alleati, ma a quel punto la strettoia era diventata la marina mercantile che falcidiata da affondamenti poneva il drammatico dilemma: carbone o grano. In ogni caso nel 1918 raggiunge le 3.580 per sorreggere lo spirito dei combattenti. In Tabella 3 un riassunto della distribuzione in calorie nel periodo bellico.
In ogni caso una buona razione deve essere formata in equa misura da proteine, grassi e carboidrati oltre a sali minerali e vitamine. In linea di massima gli ultimi studi dedicati alla dieta nostrana, ci dicono che il 55-60% dell'apporto calorico giornaliero deve essere composto da carboidrati, il 15% circa da proteine e il 25-30% da grassi. In ogni caso l’equilibro dei macronutrienti è comunque un problema da non sottovalutare. Una dieta iper-glucidica determinata da troppi carboidrati, sarà causa di malattie cardiovascolari di cui però il fante accuserà solo più avanti negli anni, sempre che sopravviva. Mentre una carenza di micronutrienti quali verdura e frutta (pressoché inesistenti) con conseguente limitazione delle vitamine determinerà un immediato danno alle capacità del sistema immunitario (in realtà agli italiani andrà un po’ meglio in relazione alla maggiore distribuzione di frutta e verdura). Vista da una prospettiva odierna il rapporto fra macronutrienti avrebbe potuto essere migliorabile diminuendo la percentuale di glucidi in favore di un aumento di lipidi e, soprattutto di protidi (materia prima, questi ultimi, della componente solida del tessuto muscolare). Ovviamente occorre considerare il costo che ne sarebbe derivato, probabilmente non accettabile.
Ma come ci arriva il rancio in trincea? In linea di massima è trasportato a dorso di mulo dalle retrovie fino alle gavette mediante le casse di cottura , vere antenate delle nostre pentole a pressione, che contengono delle marmitte coibentate con 25-30 razioni ognuna (da 3 a 4 per ogni compagnia e del peso di kg 55, cadauna). Esse sono in grado di mantenere la temperatura interna di 60° C per oltre 24 ore, per cui la cottura avviene in gran parte durante il trasporto. Nei casi in cui i muli non riescano a raggiungere le linee, ci pensano gli stessi soldati della sussistenza mediante contenitori termicamente isolati, per il trasporto a spalla. Fatto sta però che troppo spesso pasta o riso arrivano come blocchi collosi. Il brodo raffredda e si trasforma in gelatina. Scaldare una seconda volta peggiora la situazione. Il riso diventa l’incubo dei soldati meridionali che tornati a casa si rifiuteranno di mangiarlo. Nei ricettari del Sud il risotto comparirà solo dopo 50 anni! Quando proprio arrivava semi congelata si ricorre agli scaldaranci con combustibile in carta, in cera, in alcool solidificato o grasso di bue. Estrema soluzione al non mangiar nulla. Purtroppo però il vero problema del rancio in trincea è soprattutto di ordine igienico: l'ambiente in cui si era costretti a mangiare è un miscuglio di cose sparse per lo più nel fango: cassette sfondate, munizioni, ferri arrugginiti, filo spinato, vecchie marmitte bucate, cadaveri. Appare quindi inevitabile che si diffondano tifo e colera, arginati nel corso della guerra grazie alla vaccinazione di massa; ma poco si poteva fare purtroppo contro meningiti, dissenterie e altre malattie batteriche che decimeranno le truppe in trincea. La fame è da sempre una brutta bestia e finisce per diventare un argomento quasi fisso nelle lettere o nei diari dei soldati che ne parlano nei modi più diversi. A volte irritati come Emilio Lussu - Un anno sull’altopiano: “Ci preferiscono affamati, assetati e disperati. Così, non ci fanno desiderare la vita. Quanto più miserabili siamo, meglio è per loro. Così per noi è lo stesso, che siamo morti o che siamo vivi”.
A volte con rassegnazione come Carlo Emilio Gadda - Giornale di guerra e di prigionia: “Il rancio e il caffè vengono cotti la notte, poiché il Comando brigata Piemonte ha proibito di accendere fuochi durante il giorno, e con ragione. Il caffè vien recato al crepuscolo mattutino, la carne cotta rimane là durante il giorno e recata col rancio di riso o pasta a notte fatta. Gli uomini rassegnati mangiano quindi, verso le 11 di sera, con fame lupina, e prendono il caffè verso le 5 di mattina”.
A volte con ironia come Paolo Monelli - Le scarpe al sole: “Stasera attendevo a cena gli ufficiali della 297^ del Cuneo, ma hanno telefonato che non verranno. Un breve conciliabolo fra me e i subalterni, poi ordine al sergente di tirar fuori dalla baracca i cinque tali soldati, uno per plotone e uno della sezione mitragliatrici, per motivi urgenti. “Armati?” “Non importa” Un affar serio a svegliarli, quei cinque, poi un coro di bestemmie, branciando nel buio a cercar le scarpe.!” “Col fusil?” “No, sensa. Marcia tradotta” - “Ostia, cosa volli che i no lassa gnaca dormir !” “In ricognision, i te manda” “In mònega ! In ricognision senza ‘l fusil ?” Dopo cinque minuti i cinque, imbambolati, sull’attenti, ricevono gli ordini dall’ufficiale di servizio: vuotare una zuppiera colma di gnocchi nella cucina ufficiali, il formaggio c’è sopra, portarsi il cucchiaio, dopo passare dal capitano a prendere un bicchiere di vino. Vengono infatti, poco dopo, Bordoli dice che nemmeno ha bisogno di lavarla la zuppiera, con gli occhi lustri, a bere il vino e raccontar la loro gioia. Dice Tonòn, piccolo, rosso, la barbetta da becco: “l’è il dì pi bel de la me vida”.
Ma cibo legato anche alla guerra vera e propria. Infatti è capitato di trovare scritto sulle cartografie austriache Makaroni o Spaghetti Stellung per indicare le posizioni italiane. In ogni caso la fame è fame. E si aguzza la fantasia per riempire la pancia con quello che si trova. Ecco allora che compaiono ricette semplici in forma di zuppe, minestre, polente, frattaglie, aringhe o baccalà. Alcune gustose come questa che riemerge da un vecchio diario e chiamata la Zuppa del soldato la cui ricetta è così riassunta: “Ingredienti: (da 1 a n+1 persone). Farina 100 gr, Tre cucchiai di olio di oliva”. A conti fatti, recuperando gli ingredienti, non credo che si spendano più di 3 o 4 euro. Tra l’altro sappiamo anche come cucinarla da una lettera del soldato Claudio Calandra (La Grande Guerra dei piccoli uomini) che purtroppo morirà durante la ritirata di Caporetto. “Dopo esservi procurati, in qualsiasi modo, gli ingredienti, trovate un anfratto al riparo dai bombardamenti e procedete come segue. Mettete la farina nella pentola, o nell'elmetto, e accendete il fuoco piuttosto basso continuando a mescolare finché non raggiunge un bel colore di autocarro incendiato. Aggiungete l'olio e mescolate fino ad ottenere una crema di un color marroncino molto militaresco, della densità di una trincea sotto il diluvio. Aggiungete quindi l'acqua, o aspettate che piova, fino ad ottenere una cremosità... "media". qui l'occhio del soldato italiano non può e non deve sbagliare. Pelate le patate, tagliatele a dadini e tuffatele nella zuppa. Il vero soldato si mangia anche le bucce. Quando le patate saranno morbide la zuppa sarà pronta, attenzione solo a non rivelare la vostra posizione al cecchino nemico con i vapori della preparazione”
Se la fame stimola la fantasia, figuriamoci l’italica creatività. E così vale la pena raccontare la storia della 46 del Tirano la volta in cui il capitano, arrabbiatissimo per la denuncia di un furto di cotechini ai danni di un oste di Grossotto (Sondrio), fece dare l’alt alla compagnia fuori paese e dopo aver frugato gli zaini diede il comando “braghe a terra” per vedere se qualcuno avesse nascosto altrove la mercanzia. Ma neanche l’odore. Così che i carabinieri che avevano raccolto la denuncia si scusarono e rientrarono sui loro passi. Succede però che all’entrata in paese il trombone della fanfara non suona, non perché fosse rotto, ma semplicemente imbottito di cotechini e salami che prontamente furono rosolati di fronte ad un disarmato capitano probabilmente più divertito che arrabbiato. Per tantissimi soldati la vita militare ha comunque significato incontrare per la prima volta italiani provenienti da province mai conosciute. Anche a scapito di qualche simpatica incomprensione. Come per esempio quando gli alpini abruzzesi si fanno mandare casse di arance: gli alpini veneti e lombardi le vedono per la prima volta, le affettano e le mangiano così come si trovano. Vi lascio immaginare le loro espressioni. Solo dopo vengono informati che le arance vanno prima sbucciate.
Oppure quando i fanti piemontesi preparandosi il bollito, sconosciuto ai meridionali, spiegano ai commilitoni che da loro esistono miniere di bollito dove la carne si estrae tagliandola direttamente dalle pareti. In ogni caso il mescolamento fra italiani di diverse regioni produrrà, fra le tante cose, uno scambio di ricette locali, che poi terminata la guerra diverranno patrimonio culinario anche di altre terre. Sarà così che La Brigata Calabria assaporerà la pasta alla bolognese, che i Veci del Val Brenta gusteranno le Zeppole leccesi, che la Sassari si sfamerà con il Baccalà alla vicentina, che la Tevere conoscerà il Frico friulano e via dicendo. La fame quindi argomento discussione, di scambio, ma anche stimolo per inventare nuove ricette o adattarne di vecchie alla trincea, come abbiamo appena visto. Già durante la Grande Guerra e poi subito dopo saranno pubblicati libri-ricettari. Per la prima volta piatti pensati più nell’ottica del risparmio che in quella del gusto hanno l’onore di essere consegnati alla storia. In particolare ne cito uno. Durante l’inverno 1917-18 nel campo di prigionia di Hannover, Giuseppe Chioni e Giosuè Fiorentino, passano i giorni raccogliendo le ricette di tutti i loro commilitoni. Sarà pubblicato postumo con l’emblematico titolo di “La fame e la memoria”. Il primo vero ricettario della Cucina Italiana. Tra gli animali del creato, l’uomo è l’unico ad essere dotato di raziocinio ed intelligenza tale da poter autonomamente decidere cosa è bene o cosa è male, cosa è azione morale o cosa non lo è. Tuttavia è anche l’unico animale capace di agire contro ragione e di conseguenza contro se stesso. La guerra è un atto irragionevole, probabilmente il peggior male dell’umanità, eppure è una frequente condizione umana. Tuttavia la guerra ha sempre costituito un indubbio fattore di evoluzione e di progresso. Sotto la spinta delle necessità belliche, gli uomini sono stati costretti ad affinare il loro spirito, ad aguzzare l’ingegno. Molto spesso le innovazioni escogitate inizialmente per i soli scopi bellici hanno dato poi i loro frutti anche a vantaggio di attività specifiche. Ovviamente non è che si debbano fare le guerre perché dalle guerre poi si va avanti, ma è anche certo che l’umanità, purtroppo, è andata molto avanti sull’esperienza delle guerre. Se è certamente vero che i soldati in trincea hanno patito la fame in rapporto agli sforzi fatti, all’ambiente di vita, alla penuria di cibo, digiunando loro malgrado se non addirittura mangiando topi, è altrettanto vero che l’esigenza di cibo è stato un volano per modernizzare l’agricoltura ed iniziare ad introdurre quei concetti di conservazione che solo l’innovazione del frigorifero familiare renderà fruibile a tutti. Ma non dobbiamo neppure dimenticare i primi studi relativi alla valutazione nutrizionale, impensabili prima del 1918. In ogni caso e in conclusione la fame è comunque “una roba brutta”, peggio ancora perché vendicativa e trasformista. Allora imposta dalla povera contingenza della trincea, oggi griffata dall’opulenza con il nome tristemente famoso di “dieta”. Sembra quasi che l’uomo, qualunque sia la sua condizione economica, sia condannato a convivere con la fame e a lottarci: cercando il cibo o cercando di resistergli.
Fonti storiche sulla Prima Guerra Mondiale – Unità di apprendimento interdisciplinare Università popolare di Mestre


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