Equipaggiamento - Le offensive

Per quanto riguarda la divisa mimetica l'esercito italiano era all'avanguardia. Dal 1908 era in dotazione alla fanteria la divisa grigio-verde al posto di quella blu-turchese del vecchio esercito piemontese. La divisa degli ufficiali differiva però da quella della truppa per la qualità e il colore del tessuto, che tendeva più al grigio. Nei primi giorni di guerra era stato facile, anche ad occhio nudo, distinguere gli ufficiali dalla truppa. Gli ufficiali diventarono gli obiettivi preferiti dei tiratori, che toglievano così alla truppa ancora inesperta la guida e il punto di riferimento durante gli assalti. L'alto numero di ufficiali caduti e feriti nei primi mesi - “era come se avessero avuto un bersaglio disegnato sulla schiena” - li indusse ad abbandonare i guanti bianchi da parata e ogni segno che li distinguesse dalla truppa.
Ma ne erano caduti e feriti moltissimi. Il maggiore generale Carbone, comandante della Regina, fu esplicito sulle ragioni dell'abbandono da parte dei fanti di una cima del San Michele nel luglio 1915: “Non credo che qualcuno abbia colpa; e neanche il nostro soldato, che si ritrasse disperso dalla lotta; ne fermai molti nella ritirata: mi si rivolsero pietosi, sbigottiti: si, siamo pronti, signor generale, mi dissero, a fare il nostro dovere fino alla morte, ma non abbiamo nessuno che ci guidi, nessuno che ci comandi, nessuno che ci dica dove andare che cosa dobbiamo fare! E' purtroppo così. La massa degli ufficiali, sempre sublime, aveva pagato di persona con il proprio sangue le conquiste gloriose. Nel 1915 la bomba a mano era un'arma sconosciuta sopratutto per i “richiamati” che avevano già prestato servizio militare: molti, al primo incontro con questi ordigni, credevano che gli austriaci stessero tirandogli dei sassi”. La carenza più grave non era però né nelle dotazioni individuali né nell'approccio mentale, ma nelle dotazioni di armi automatiche e di artiglieria. All'entrata in guerra l'esercito aveva solo 618 mitragliatrici, 1.784 pezzi di artiglieria leggera, 112 pesanti da 149 mm (ma molti in ghisa), 8 obici da 210 mm, più altre varie bocche da fuoco.
Nel parco di artiglieria i pezzi “moderni” erano solo 340 (!), per il resto si trattava di cannoni antiquati. Il confronto con l'Austria-Ungheria non si poneva neppure: 1.534 mitragliatrici, 3.670 pezzi di artiglieria (la Germania aveva 1.900 mitragliatrici e 5.000 cannoni, a dimostrazione dell'abisso che separava la potenza industriale tedesca da quella italiana, che ebbe il suo decollo, appunto con la guerra). Fondamentale per la riuscita dell'attacco sarebbe stata la coordinazione tra tiro dell'artiglieria e movimento della fanteria. Per evitare i tiri corti furono ideati alcuni stratagemmi molto primitivi. L'idea di legare dei dischi rossi (o bianchi a seconda del momento) ai soldati delle prime ondate d'assalto era uno di quegli stratagemmi che difficilmente funzionavano, ma che ebbero per molto tempo credito tra i comandi d'artiglieria. Si pensava infatti che l'accorgimento avrebbe agevolato l'utilizzo dei pezzi anche durante le azioni, ma ci si rese conto che la confusione e la scarsa visibilità durante gli attacchi rendevano inutili questi espedienti, così come issare cartelli, o stendere stuoie colorate sul terreno. La distruzione e il superamento dei reticolati di filo spinato fu, almeno fino all'estate del 1916, il principale ostacolo per gli italiani. L'artiglieria si rivelò totalmente inadatta a un compito di distruzione dei reticolati. Spesso l'effetto ottenuto era quello di ingarbugliarli ancora di più: le grandi esplosioni alzavano da terra i grovigli di fili, facendoli poi però ricadere intatti.
Figlia di questo problema fu la terribile “epopea delle pinze” che costò la vita a migliaia di soldati che tentavano di recidere con attrezzi inadatti il filo spinato, esponendosi mortalmente al tiro nemico. Racconta Emilio Lussu, mitico ufficiale della brigata Sassari e autore del libro di memorie forse più famoso della guerra, Un anno sull'altipiano: “Il tenente colonnello aveva il seguente piano: la notte, far brillare i tubi; all'alba, mandare esploratori e far allargare le brecce dei reticolati con le pinze taglia fili; subito dopo attaccare. […] Quando io sentii parlare di pinze, mi si rizzarono i capelli. Con le pinze, sul Carso, avevamo perduto i migliori soldati, sotto i reticolati nemici”. Dopo la prima battaglia dell'Isonzo, come strumento più adatto per la distribuzione dei reticolati, venne indicato il tubo di gelatina. Questo è la descrizione di Stuparich del suo primo incontro, in fase di addestramento, con i tubi di gelatina: “Sul terreno, davanti a noi, ci sono due lunghi tubi, sottili e lucidi; il tenente ne solleva uno per un capo e ci spiega che esso contiene dei pacchetti di gelatina esplosiva; all'estremità c'è la miccia; bisogna portarlo in due e andar cauti per non batterlo contro qualche sasso, infilarlo nel reticolato nemico, accender con uno zolfanello la miccia, accertarsi che questa arda e, se non arde, riaccenderla di nuovo; poi, se ne ha tutto il tempo perchè la miccia si consuma lentamente, ritirarsi dietro un riparo: un albero, un sasso, una piega del terreno. […] Si fa la prova. Il tenente chiama due di noi e li fa procedere col tubo, prima in piedi poi carponi; giunti al reticolato, mostra loro come devono infilare il tubo, né troppo in alto, né facendolo scivolare sul terreno, ma sull'incrocio più basso dei fili. Il tubo è piuttosto pesante, ma l'operazione, anche perchè spiegata con molta chiarezza, appare semplice e facile; basta un po' di prudenza”.
La posa dei tubi non era solo un'operazione potenzialmente suicida: poteva talvolta risultare inutile. La lunga miccia spesso non si accendeva o si esauriva a metà combustione a causa di pioggia o umidità. Nei primi mesi di guerra dal fronte delle Dolomiti di Sesto Gino Frontali scriverà: “Intanto Franceschini era alle prese con un sergente del Genio dal viso pallido e dagli occhi sfuggenti, che riconobbi essere quello che nella notte innanzi aveva diretto la squadra dei portatori di tubi. Franceschini gli ricordava che un solo tubo era brillato, cioè quello al quale aveva dato fuoco Coppolino in persona,, e che la squadra dei portatori era irreperibile. Il sergente giurava che tutti i tubi erano nei reticolati, non erano esplosi per una irregolarità delle micce.” Nell'utilizzo dei tubi e delle pinze taglia reticolati esisteva un grosso problema di fondo: l'operazione così delicata del taglio dei reticolati o della posa dei tubi doveva avvenire nell'oscurità. Non era però possibile, con il buio, lanciare le truppe all'assalto attraverso i varchi aperti: non li avrebbero certamente trovati.
Così gli attacchi venivano rimandati alle prime luci dell'alba, con un esito scontato: “Gli ordini sono sempre quelli, si mettono i tubi di notte. Tu pensi che si dovrebbe andare all'attacco subito, no? Per approfittare dello scompiglio e dello sgomento. Macchè! Bisogna attendere poi l'alba per rendersi conto degli effetti ottenuti e per tenere una direzione. Un po' d'ordine, per Dio, ci vuole. Così che gli austriaci hanno tutta la comodità di piazzare dinnanzi al varco aperto una mitragliatrice, sicuri che sarà piazzata a dovere. I gruppi di soldati che venivano scelti per l'operazione per la posa dei tubi, o del taglio dei reticolati, soprannominati non a caso Squadre della morte, e ai quali erano garantiti permessi speciali e premi in denaro, furono spesso dotati di scudi e corazze, per proteggersi dall'inevitabile e inesorabile fuoco nemico.
Le offensive
Le prime cinque battaglie dell'Isonzo ebbero tutte un filo conduttore comune. Le mosse iniziali del regio esercito, denominate “il primo sbalzo offensivo”, avevano portato all'occupazione del terreno sgomberato dagli austriaci. Nella prima battaglia dell'Isonzo (23 giugno-7 luglio), l'attacco sul fronte friulano fu praticamente totale. Dice Bencivenga: “Quello che è tipico, in questa ripresa offensiva, è l'assoluta assenza di un disegno di manovra. L'azione si riduce così a un insieme di attacchi slegati nel tempo e nello spazio”. Come obiettivo primario della prima offensiva si fissò l'eliminazione delle due teste di ponte austriache oltre Isonzo, quella di Tolmino e quella di Gorizia, e l'allargamento invece della piccola base sulla sponda orientale del fiume strappata valorosamente dai soldati della brigata Ravenna, e intaccare così la lunga dorsale Kuk-Vodice-monte Santo per aggirare le difese austriache di Gorizia da nord. La seconda offensiva dell'Isonzo (18 luglio-4 agosto), ebbe come teatro principale l'area del monte San Michele. La caduta di questo pilastro difensivo austriaco avrebbe consentito di minacciare la testa di ponte di Gorizia da sud e da nord le difese del ciglione carsico di fronte a Monfalcone e Redipuglia. Recita la Relazione Ufficiale Italiana “Appena accertato l'allungamento del tiro la fanteria avversaria, già esperta nella guerra di posizione, aveva saputo rioccupare rapidamente le trincee, cosicchè le nostre fanterie, non ancora fmiliarizzate con il nuovo tipo di lotta, non erano state pronte a balzare nelle trincee avversarie quasi seguendo gli ultimi proiettili, si trovarono di fronte a ripari in parte distrutti, ma a truppe non scosse come la violenza del fuoco avrebbe potuto supporre”.
Occupammo per una notte il San Michele – scriverà Cadorna -; ma è più facile prenderlo che restarci!”. Addirittura il contrattacco austriaco arrivò a minacciare la presenza italiana sulla sponda sinistra dell'Isonzo. Lungo tutta la linea del primo ciglione del Carso, da Castelnuovo a Monfalcone, le truppe attaccarono con tenacia. Gli austriaci riuscirono però a tenere la linea e a contenere l'attacco. Sul monte Sei Busi – diviso in quota 11 a nord e quota 118 a sud -, si verificò un altro momentaneo successo italiano. Il 26 luglio quota 118 fu presa dalla Pinerolo, ma la repentina reazione dell'artiglieria austriaca costrinse gli italiani a sgomberare la posizione. Gli austriaci rinunciarono alla riconquista della quota, che rimase così nella “terra di nessuno”. Furono due le offensive scatenate fra l'autunno e l'inverno del 1915, così ravvicinate che possono essere considerate un'unica battaglia. La terza (18 ottobre-3 novembre) e la quarta battaglia dell'Isonzo (10 novembre-2 dicembre) ripeterono le procedure delle precedenti offensive, stemperando riserve, materiali e artiglierie su tutto il fronte.
Fu in queste due battaglie che cominciò l'epopea legata agli attacchi italiani alle quattro vette del San Michele (caposaldo della testa di ponte di Gorizia e del ciglione carsico) nel tentativo di aggirarle da sud. Spesso ripetuti nei bollettini e nei giornali, erano sulla bocca di tutti i nomi della Trincea delle Frasche, dei Sassi Rossi, dei Morti, della Trincea dei Razzi, della Trincea delle Celle, dei Sassi Rossi, dei Morti, della Trincea a Ypsilon, il Dente del Groviglio, il Ridottino a ferro di cavallo. Ad alimentare questa epopea furono diversi episodi legati in particolar modo alla presenza nel settore della brigata Sassari, assieme ai Granatieri giudicate sia in patria che fra gli avversari le migliori unità di fanteria. Ma soprattutto per la morte durante un attacco alla Trincea delle Frasche del sindacalista interventista Filippo Corridoni, uno fra i più famosi propugnatori dell'intervento. La campagna del '15 è ricordata come la più ricca di sacrifici e la più sterile di risultati. Del resto la stessa Commissione d'inchiesta per Caporetto conferma questa impressione laddove scrive che “E' innegabile che le gravi perdite sopportate dal nostro esercito in confronto dei limitati guadagni, non solo le primissime operazioni del maggio-giugno, ma ancor più nelle offensive del luglio e dell'ottobre-novembre 1915, per quanto ne venissero magnificati i risultati, stancarono e depressero le truppe che videro riuscire pressochè sterili le fulgide prove di eroismo e di sacrificio dei migliori elementi”.
Ora, senza dubbio, un fondo di verità è in queste parole, ma non per colpa di Cadorna. La guerra era così. E negli altri fronti accadeva di peggio. Le perdite – scrisse Roberto Bencivenga – furono senza dubbio pesanti. Ma le nostre perdite in tutti i 7 mesi della campagna del '15 – 66.000 morti e 180.400 feriti – non superarono che di poco le perdite che i francesi ebbero nella battaglia invernale, combattuta nello Champagne dalla metà di febbraio fino al 20 marzo 1915 – secondo il Palat 240.000 uomini tra morti, feriti e dispersi – e superarono di poco la metà di quelle che in totale ebbe l'esercito francese nei cinque mesi di guerra del 1914, secondo i dati del maresciallo Joffre: 420.000 uomini. La 2 battaglia dell'Isonzo (18 luglio-4 agosto) consistette nella presa e nella perdita del San Michele (20-21 luglio); dal 23 giugno al 15 agosto costò 56.813 uomini; la battaglia della 9 armata francese, dal 9 maggio al 24 giugno, circa 200.000 uomini, e le forze della 9 armata erano inferiori a quelle delle armate 2 e 3 che combatterono sull'Isonzo.
L'offensiva autunnale (18 ottobre-2 dicembre), giustamente giudicata dalla Commissione come quella che richiese maggiori sacrifici costò un totale di 105.975 uomini tra morti, feriti e dispersi. Le divisioni impiegate in quest'offensiva da parte nostre furono 23 circa. Orbene – continua Bencivenga - “nella breve battaglia di Loos, combattuta dagli inglesi dal 21 settembre alla metà di ottobre '15, questi perdettero 60.000 uomini, su una forza impiegata di 9 divisioni!” La Commissione d'Inchiesta lamenta che il Comando Supremo magnificasse i risultati della lotta. Ma da quando in qua s'è visto il comandante demoralizzare le proprie truppe dicendo loro: “I vostri sanguinosi sacrifici hanno avuto un effetto nullo”. Del resto al popolo inglese, i cui nervi erano ben saldi, non si disse che la battaglia di Loos era stata una “grande vittoria inglese (Great British Victory)?”.
Ma in realtà la nostra campagna del '15, più che per le perdite in morti e feriti in combattimento, pesa nel ricordo per i disagi, per le privazioni e per le malattie. Uomini delle tiepide pianure del mezzogiorno furono, ad un tratto, trasportati a combattere nel nord, fra le nevi, su montagne difficili per gli stessi alpigiani. Uomini nativi di montagne furono trasportati di colpo a marcire nelle bassure ove stagnavano le acque e prosperavano parassiti di ogni genere. Tutti poi esposti alle inclemenze del clima e al martellamento delle artiglierie nemiche, per mancanza di ricoveri confortevoli e sicuri. Si aggiungeva il diffondersi di infezioni specifiche prese dal contatto con gli avversari, o risvegliate dall'affollamento e dalla minorata resistenza di organismi sottoposti al pericolo e alle privazioni, e si comprenderà facilmente quale dovesse esser la ripercussione morale di un simile stato di cose”.
Questa situazione non fu una particolarità dell'esercito italiano. Le stesse truppe inglesi, che sotto il punto di vista logistico furono quelle più riccamente dotate, ebbero a soffrire moltissimo nell'inverno '14-15. La permanenza in trincee piene di fango, in campi non disinfettati, diede luogo a congelamenti e febbri (piede da trincea e febbre da trincea). La guerra nel '15 fu durissima, ma si deve sempre tener conto che il fronte italiano era lungo come quello francese e che i sacrifici non furono più gravi di quelli che sopportarono i combattenti sugli altri fronti. Semmai, dice Bencivenga, “è motivo di legittimo orgoglio averli affrontati e superati nonostante la desuetudine alla guerra, e soprattutto senza un periodo di allenamento fisico e spirituale quale fu la guerra di movimento e il graduale passaggio alla guerra di trincea, come avvenne per gli Alleati”.
Università degli studi Cà Foscari di Venezia – Facoltà di Storia – La Grande Guerra Italiana le battaglie – docente prof. Coglitore Mario – partecipante come uditore -

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