Scusatemi se uso, forse
inopportunatamente, il nome del gruppo vocale che furoreggiò in Italia negli anni
dal 1936 al 1943. Il titolo al post è per me quanto mai appropriato nel
presentarvi i personaggi che lo compongono. Parliamo di persone che pensano di
vivere in un palcoscenico, proprio come il trio Lescano e, in quel palcoscenico,
credono di essere professionisti di inarrivabile bravura, auto convincendosi di
essere stelle di prima grandezza.
Professionisti che operano nel
sociale e non, come il vecchio trio Lescano, nel campo musicale. Professionisti
pagati con i soldi dei contribuenti in quanto facenti parte dell’azienda Ulss
13 (Dolo-Mirano).
Occupano posizioni di
responsabilità quali la direzione dei servizi sociali, la direzione del
distretto socio-sanitario Spinea Area Nord e la direzione dei servizi area
disabilità adulta.
Se volete conoscere i nomi la
cosa è molto semplice basta entrare nella rete e in ricerca digitare i
riferimenti sopra riportati.
Mia intenzione è raccontare i
loro modi di comportamento con l’utenza che chiede a lor signori risposte
concrete e puntuali ai bisogni di famiglie con persone vittime di disabilità acquisita.
Si tratta di un universo
misconosciuto ai più. Colui, poi, che porta su di se i segni permanenti dell’evento
non fa notizia e diventa il protagonista di un mondo sommerso, noto per l’appunto,
solo ai servizi sociali o sanitari, un mondo nel quale deve fare i conti con la
dura realtà di una vita, se gli verrà data l’opportunità , da ricostruire
ex-novo, condizionata dalla modifica permanente delle proprie condizioni di
salute e fisiche.
Un mondo dove non si sa spesso
cosa succede dopo.
Cioè non si sa, nella
percezione comune, quali sono le condizioni di vita di chi si salva, come ci si
salva. La cosa drammatica è che le persone a cui ti trovi di fronte che
dovrebbero darti delle risposte non sono assolutamente in grado di dartele
essendo impreparate e più, drammaticamente, incapaci di rispondere ai bisogni
della persona.
Non sanno rispondere alle
fragilità acquisibili a numerosi fattori :
All'impatto psicologico alla disabilità acquisita;
Alla totale estraneità del disabile acquisito e dei suoi familiari dal mondo dei servizi socio-sanitari;
Alla necessità , talvolta impellente e manifesta, di trovare un supporto e di mettersi in relazione con altre persone e famiglie che hanno vissuto o stanno vivendo lo stesso tipo di esperienza per sentirsi meno sole e per cominciare a percorrere un percorso di accettazione che non deve però tradursi in rassegnazione, ma comunque in ricerca coraggiosa di una autonomia migliore possibile.
Ma, niente di tutto ciò, se
non l’invito proprio alla rassegnazione, alla accettazione passiva che così è e
non cambierà più.
Non vi è la minima competenza neanche
per capire almeno che i tempi necessari all’accettazione della nuova situazione
sono estremamente soggettivi. Per capire che un conto è avere 22 anni un altro è
averne 60.
Si prende e si fa di tutto un’erba
un fascio.
“Avevo 22 anni e stavo benissimo… così a un certo punto la vita cambia,
all’improvviso. Dopo mesi passati in ospedale e in centri riabilitativi arrivo
a casa e capisco che non sono più la
persona di prima con la rabbia aggiunta che non posso nemmeno guardarmi allo
specchio perché…sono diventato anche cieco totale. Mi hanno detto che son pieno
di cicatrici sulla testa che ho segni visibili dell’intervento che mi ha salvato la vita e…forse
il problema più grosso,quello che mi martellava di più, era il fatto che adesso
con questa situazione con questo dramma nessuna ragazza mi guarderà mai più o
mi vorrà mai più quindi…quando mancheranno i miei che fine farò?” (Federico)
“Tutti i giorni sono diversi, ecco perché la rassegnazione no,è un
buttare la spugna, sarà che io sono un tipo che ha sempre pensato di spaccare
il mondo ma la spugna cercherò di non buttarla mai” (Federico)
Handicap acquisito usano come
terminologia i tre professionisti ma, come tutte le definizioni che si basano
su poche parole, appiccicano un’etichetta a quelle persone che, nel corso della
vita per via di un evento traumatico,sono diventate disabili.
Persone quindi che non sono
nate con un deficit, persone che hanno un prima e un dopo da confrontare. Un
dopo che si presenta sempre tragico e insopportabile ma che, con il passare del
tempo, può portare delle novità – può sembrare assurdo positive.
“Non credo ai miracoli. Ma vi rendete conto che tutto quello che si
progetta di fare per vostro figlio è pagato con i soldi dei contribuenti?” (Direttore distretto socio-sanitario)
“E’ inimmaginabile pensare di mandare vostro figlio in strutture fuori
Ulss13 pensate quanti sarebbero i costi a carico dei contribuenti?” (Responsabile Area disabilità adulti)
“E’ una collaborazione poco costruttiva la vostra. Affidatevi ai
professionisti che vi circondano e alle opportunità che vi offrono” (Direttore Servizi Sociali)
Soldi dei contribuenti? Non
parliamo certo però del suo stipendio egregio direttore del distretto socio
sanitario. Qui i contribuenti non buttano via i loro soldi, vero? Che lei
risolva o meno i problemi i contribuenti la pagano lo stesso, nel mio lavoro se
vendo (bene) se non vendo non ci sono i contribuenti a pagarmi.
Strutture fuori Ulss13? Il
problema caro il mio responsabile area disabilità adulti è semplicemente
economico. Tutto quello che è stato fatto fino ad ora per nostro figlio è stato
per la maggior parte a carico economico familiare con gravi ripercussioni nel
bilancio della famiglia.
Affidarsi ai professionisti? Egregio
direttore dei servizi sociali dovrebbe sapere che, da cinque anni a questa
parte, escluso il periodo iniziale dell’evento traumatico, le proposte, la
ricerca dei centri riabilitativi, i contatti con le varie realtà della
disabilità , le spese di ospitalità , viaggio ect, sono pesate completamente
sulla famiglia. E i consigli degli esperti ? Centro diurno del distretto - innapropriato
anche a detta degli stessi educatori del
centro – Ricovero presso un centro residenziale – a 27 anni relegare una
persona con una relazione di vita sociale presente non ci sembra proprio il
caso salvo per voi, risolvere il problema lavandovi le mani, costringendo una
persona a abbandonare il suo ambiente familiare, la sua vita sociale per il
semplice fatto di essere degli incompetenti.
Certamente non sono del
settore e certamente non un professionista ma, cinque anni di questa realtà mi
hanno messo in moto delle considerazioni che mi sono costate molti sforzi all’interno
di me stesso e che mi hanno portato a comprendere che migliorare la qualitÃ
della vita di un disabile, non significa solo aiutarlo da un punto di vista
tecnico, ma anche culturale; l’ausilio medico deve essere supportato anche da
altro, da solo non basta, occorre aiutare la persona svantaggiata a
ricostruirsi un proprio progetto di vita e questo può essere fatto attraverso
la cultura, la relazione, la messa in discussione degli stereotipi. E’ inutile continuare a ragionare perché scientificamente
così è scritto, pensate cari signori, un attimo soltanto cosa può voler dire
per un ragazzo di 22 anni come risolvere i problemi dell’incontinenza,come
risolvere i problemi relazionali, come risolvere i problemi di mobilità e,
forse, comincerete in modo reale e costruttivo a fare veramente il vostro lavoro.
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